Volto deriva da una forma medievale in disuso del verbo latino “volére”, indica l’agito volontaristico, d’intenzionalità cosciente.
Il Viso, termine semanticamente legato a vedere e a visione, è portatore di una dimensione psicologica che sfugge all’èthos del “volto”. Riguarda la sfera più “privata”, che non è opportuno esprimere pubblicamente, quasi a proteggere il bisogno di soggettività e intimità.
Il Volto è “emblema”, reca sulla sua fisionomia un’espressione di volontà, quale dignità di condizione sociale e morale, di come io decido di manifestarmi al mondo.
A livello psicologico il volto svolge il ruolo della presentazione di sé nel processo comunicativo, con una fissità volitiva che impone un significato dell’emblema. Infatti, il volto esprime anche gli stati d’animo, le emozioni, i sentimenti che si vuol far vedere, far trapelare di sé all’altro.
In realtà, ciò che si “vede” nel volto è “l’effetto abbagliante del mascheramento”, che custodisce il viso nel segreto del non-visto.
La relazione volto/maschera sussiste, dunque, perché l’uno e l’altra nascondono le espressioni individuali della faccia, ma mentre la maschera è imperturbabile nel nascondimento per sua natura fisica, il volto nasconde con minore rigidità e maggiore rischio: il viso, infatti, non viene eclissato fisicamente quanto mimetizzato, rappresentato dietro un’espressione intenzionata, con la quale l’individuo si colloca nel contesto sociale, filtrando le espressioni poco convenienti rispetto al ruolo, alle circostanze, all’etica dominante.
Dirà Levinas: «Noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l’Altro. La vera natura del volto sta nella domanda che mi rivolge. Il volto … traccia dell’infinito».
Paola Argentino
Direttrice Istituto di Neuroscienze e Gestalt Therapy “Nino Trapani”
e Condirettore Master e Docente Università Cattolica Sacro Cuore