Sentiamo continuamente parlare di indice di trasmissibilità del virus, di dosi di vaccino promesse e non recapitate, di quotazioni in borsa e poco o niente si dice di altri ben più gravi dati che sono da attribuire (anche questi) agli effetti della pandemia: il tasso di suicidi o di tentativi di suicidio registrato soprattutto fra i giovani, che è cresciuto a dismisura.
Solo al “Bambin Gesù” la situazione registrata al 2011 era di 12 tentativi di suicidio a fronte di oltre 300 tentativi nel 2020 (dato riportato dal prof. Giuseppe Savagnone in un suo recente articolo su questo dramma in “Tuttavia” 22/1/2021). L’aumento di richieste di aiuto per gli adolescenti nei consultori e negli studi professionali sta lievitando. E qualsiasi docente si accorge di quegli sguardi dietro gli schermi sempre più spenti, i sorrisi sempre meno convinti.
Zona gialla: sembra tornato tutto alla normalità, o quasi, ma il malessere permane. E rode.
«Per noi un anno vissuto così è come cinque anni di un adulto: abbiamo perso questo tempo e nessuno ce lo restituirà» – mi diceva un alunno. Né serve far notare che in altre epoche ai giovani mancavano spensieratezza e benessere, che anche oggi tanti vivono di stenti o sono attanagliati da malattie croniche, non serve aver studiato che nel 1916 furono chiamati alle armi e buttati a morire e ad uccidere ragazzi che da pochissimo avevano compiuto diciassette anni: sapere che anche altri hanno mal di denti, non allevia le fitte. E quando il dolore è troppo lancinante non si vede altra soluzione che anche quella estrema per liberarsene. Lo sappiamo: i dolori del cuore sono i più intensi che si possano sperimentare. Tutto è sopportabile se mi sento appagato a livello relazionale e nulla è tollerabile quando mi sento solo o sento distanti nel cuore le persone a cui tengo. Quanti ragazzi innamorati, chiusi in casa, non hanno potuto trovarsi dinanzi il viso dell’amata ed accarezzarlo liberamente! Quanti hanno dovuto rinunciare a quelle esperienze di squadra che fanno fremere ad ogni passaggio di palla e che riempiono di fremiti ogni muscolo!
I suppletivi non bastano: è mancato «l’odore delle relazioni» (Giovanni Salonia).
Il collegamento a distanza con qualsiasi altro luogo della Terra che sembrava prima un trampolino di lancio da cui prendere la rincorsa verso le mete più ardite, è diventato una pericolosa forbice che tarpa le ali.
L’adolescenza è il periodo in cui si lasciano le mura domestiche per andare verso il mondo, in cui sperimentare relazioni nuove, tra cui farsi spazio a volte sgomitando per poi leccarsi le ferite ma attraverso cui sperimentare la propria forza: l’essere “grandi”. La gioventù “mira ed è mirata e in cor s’allegra”, canta Leopardi. Ha bisogno di guardare e di sentirsi guardata e non è attraverso un monitor che ci si sente “visti” o attraverso costruiti tiktok o foto in posa, ma perché ci si incontra e si colgono due occhi che si soffermano qualche secondo in più, un sorriso compiaciuto che sfugge e che fa dire: “Sono bella!”, “Sono figo!”. Cioè “Vado bene”. Passaggi di crescita questi che sono mancati e che stanno mancando. E che, se sommati allo stress del profitto scolastico, all’amica che ha i suoi problemi e non si fa sentire, all’ansia per familiari ammalati o per genitori che sbraitano l’uno contro l’altro, diventano cataclismi interiori. Il terreno sprofonda sotto i piedi. Le fragilità slatentizzano i propri artigli. E allora va bene tutto, pur di non stare così male.
E, paradossalmente, finché si sta male perché la vita esterna manca, c’è vita che scorre nelle vene: «La cosa più terribile è […] quando i giovani si abituano a relazionarsi alle altre persone e alla realtà attraverso lo schermo del computer, del tablet o dello smartphone al punto da perdere perfino la nostalgia degli spazi esterni, delle strette di mano, degli abbracci, delle chiacchierate in gruppo» (Giuseppe Savagnone).
Cosa fare? Se ogni sintomo è un “appello alla relazione” (Antonio Sichera) per noi educatori, per noi adulti – e quale adulto non ha una responsabilità educativa? – è il momento di esserci. Di essere presenti e attenti. Di trovare tempo per ascoltare, per far raccontare a questi giovani quanto stanno male. Di accogliere il loro dolore, perché è vero, è profondo e ogni sofferenza autentica è legittima ed ha diritto ad essere medicata. L’essere umano non è destinato a restare prono sotto il peso delle sue sofferenze, ma a rialzarsi e rimboccarsi le maniche e riprendere il cammino. Ciò che gli serve è la parola per narrarsi (e ce l’ha già) e un Tu a cui narrare e che sappia ascoltarlo (e dobbiamo essere noi questo Tu).
È un compito ineludibile e perentorio. Per tutti. Dalla scuola, dove gli insegnati dovranno creare spazi di espressione e confronto, ai genitori che non possono e non devono parlare di questioni economiche e politiche se non hanno prima saziato i propri figli del loro ascolto, ad ogni adulto che possa offrire il proprio tempo e la propria attenzione perché nessuna lacrima resti non raccolta. Dirigenti Scolastici, Consultori, agenzie educative sono chiamati (siamo chiamati) ad assumerci con impegno e progettualità efficace questo compito.
E dato che c’è una naturale ritrosia degli adolescenti e dei giovani verso il chiedere aiuto (confligge proprio col bisogno di sentirsi “grandi”), forse se noi adulti diamo l’esempio e, per primi, ricorriamo a figure esterne per poterci riprendere dai nostri problemi, anche loro si fideranno e ci proveranno. Crederci e provarci è già iniziare a riuscirci. Per noi e per gli altri. Che il virus della sfiducia non trovi facili vie di contagio! Le patologie esistono e sono purtroppo a volte irreversibili, ma molto spesso il malessere può essere arginato perché se le mancate relazioni ne sono causa, una buona relazione lo cura.
Sarà pure fallace dal punto di vista storico il film “La vita è bella”, ma la sua lezione su una genitorialità che non abdica nemmeno nella peggiore della situazione, resta immortale: “Abbiamo vinto!” possa essere il grido che chiude ogni scenario di vita dei nostri figli.
Agata Pisana
Docente Master in Counselling Socio-Educativo