Primo annuncio
SUMMER SCHOOL 2024
30 maggio – 2 giugno
“La follia della logica e la logica della follia”, sarà il tema della Summer School 2024, organizzata dall’Istituto di Neuroscienze e Gestalt Therapy “Nino Trapani”, in sintonia con le tragedie che saranno rappresentate al Teatro Greco di Siracusa: “Aiace” di Sofocle e “Fedra (Ippolito portatore di corone)” di Euripide, ove il tema della follia è cruciale nell’evoluzione degli eventi.
L’evento culturale si svolgerà dal 30 maggio pomeriggio al 2 giugno mattina nella Biblioteca storica del Convento dei Frati Cappuccini a Siracusa in p.zza Cappuccini, 2.
Questo anno affronteremo il tema della follia, proprio delle tragedie greche, ma anche preponderante aspetto sociale attuale: dai femminicidi agli infanticidi, dai suicidi tra i giovani alla violenza di branco, dal bullismo alla dipendenza da internet e al dibattito sull’Intelligenza Artificiale. Approfondiremo la lettura psicopatologica della realtà dissociata e delirante dilagante in questo contesto storico, soprattutto tra gli adolescenti, offrendo una prospettiva rigenerativa di speranza costruttiva e orizzonti possibili.
GIOVEDì 30/05/2024
LECTIO MAGISTRALIS PROF. EUGENIO BORGNA: “Cosa è la follia?“
Eugenio Borgna
Medico psichiatra. È primario emerito di psichiatria dell’ospedale Maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano. Esponente di punta della psichiatria fenomenologica, tra i suoi principali settori di studio c’è l’indagine sulla depressione e la schizofrenia, cui ha dedicato numerosi saggi scientifici e pubblicazioni maggiorente divulgative.
La follia tra thanatos e ghelos nella lacerazione sociale dell’identità, da Aiace ad oggi.
PAOLA ARGENTINO
Medico, Psichiatra-Psicoterapeuta. Co-Direttore Master in Psico-Oncologia, in PNEI e Neuroscienze e di altri Master dell’U.C.S.C. Docente Univ. di Psicologia Clinica e Psicopatologia. Autrice del libro “La spiritualità è cura: la forza dell’amore nel dolore”, ed. Mondadori Università.
Le forme dell’esserci e del divenire nella logica inclusiva
GIOVANNI SALONIA
Psicologo, psicoterapeuta e teologo. Già docente di Psicologia Sociale presso l’Università LUMSA di Palermo e di Psicologia presso la Facoltà Teologica di Palermo, è attualmente docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore e all’Università Gregoriana. Direttore Scientifico della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della Gestalt dell’Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairòs.
Amaranto
Francesco Cataldo
Compositore, chitarrista e pianista ha collaborato con artisti jazz di fama mondiale e registrato tre album: “Spaces” (New York 2013), “Giulia” (Roma 2020) e “Amaranto” (2024) . Si dedica anche alla composizione di musiche per il cinema e il teatro.
venerdì 31/05/2024
Dietro la verità
GIORGIO BONACCORSO
Monaco benedettino. È docente presso l’Istituto di Liturgia Pastorale di Santa Giustina (Padova). Si occupa dei riti religiosi e cristiani, con particolare attenzione all’aspetto antropologico, e approfondisce e commenta testi di teologia, filosofia e letteratura
Tra Eros e Aidos. Per una lettura gestaltica di Fedra
ANTONIO SICHERA
Insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Univ. degli Studi di Catania ed è docente di Fenomenologia ed Ermeneutica nella Scuola di Specializzazione dell’Ist. di Gestalt Therapy Kairòs.
VINCENT VAN GOGH: nonostante le difficoltà
CLAUDIA KOLL
Attrice di teatro, cinema, televisione. Regista. Insegnante. Counsellor professionista. Le connessioni fra Pastoral Counselling-Gestalt Therapy e l’arte l’hanno confermata in un percorso umano e artistico che desidera un benessere autentico e unitario per tutti coloro che si rivolgono a lei.
LABORATORIO ESPERIENZIALE: “Quella danza che fluisce verso l’alterità”
DARIO LA FERLA
Coreografo e docente di teatrodanza presso l’Accademia nazionale del dramma antico – Inda, danzaterapeuta, neuropsicomotricista.
Trainer del Laboratorio esperienziale di counselling pastorale e socio-educativo
GAETANO LA SPEME
Trainer del Laboratorio esperienziale di counselling pastorale e socio-educativo
EMILIANO STRINO
Frate Minore Cappuccino, licenziato in teologia spirituale francescana presso la Pontificia Università Antonianum di Roma. È counsellor gestaltico e svolge servizio di formazione alla vita religiosa e alle dinamiche fraterne. Attualmente è parroco della parrocchia S. Maria della Misericordia di Siracusa presso il convento dove risiede.
sabato 01/06/2024
Intelligenza artificiale emotiva: risorsa o follia?
MARIA LUISA DI PIETRO
Professore associato di Medicina legale della Facoltà di Medicina e Chirurgia “A. Gemelli” di Roma, Direttore del Centro di Ricerca e Studi sulla Salute Procreativa (CeRiSSaP) dell’Università Cattolica Sacro Cuore.
Ossimori del suicidio tra logica e follia, dalla tragedia alla modernità
ERICA FRANCESCA POLI
Medico psichiatra. È psicoterapeuta e counselor. Membro di numerose società scientifiche, tra cui IEDTA, ISTDP, OPIFER, EMDR Italia, ha un’eclettica formazione psicoterapeutica che le ha fornito la capacità di affrontare il mondo della psiche fino alla spiritualità, sviluppando un personale metodo di lavoro psicosomatico.
“Ostinatamente umano”: declino e delirio comunicativo tra tecnica e mortalità
GIOVANNI MORUZZI
Oncologia medica
Master cure palliative e terapia del dolore
Master psiconcologia
Master bioetica
Responsabile Hospice “Kairos” Siracusa
Presidente Associazione C.I.A.O. – onlus (Centro Interdisciplinare Ascolto Oncologico)
Interpretazione di un cantautore
Massimo Poppiti
Frate Minore Cappuccino della Prov. Campania-Basilicata. Cantautore della Christian Music Italy e compositore. Autore di due Album musicali “VIVI” e “AMA PER AMARE”
Interventi preordinati
domenica 02/06/2024
Inganno e tormento del principio di non contraddizione
AGATA PISANA
Counsellor formatore supervisore, già docente di Storia e Filosofia, oggi docente alla Facoltà di Teologia di Messina, si occupa da anni di elaborazione del lutto. Vicepresidente Nazionale della Confederazione dei Consultori Familiari e Presidente della Federazione Sicilia degli stessi.
Generazione Z: una follia per sopravvivere?
GILBERTO BORGHI
Teologo e pedagogista clinico romagnolo. Docente di antropologia filosofica e di religione. Da tempo si occupa del rapporto tra fede e postmodernità, e del mondo giovanile in rapporto alla dimensione spirituale.
Melancolia dell’uomo di genio: dove sfuma la follia compare la visione
CHIARA GATTI
Counsellor professionista diplomatasi nella Scuola di Formazione dell’Istituto Nino Trapani, mediatrice sociale e formatrice. Svolge attività didattica in progetti educativi rivolti al mondo della scuola, del volontariato e della realtà francescana. Collabora con vari blog e riviste e ha realizzato un proprio blog di poesia (www.amarilli.eu).
GAETANO LA SPEME
Counsellor professionista, si è formato presso l’Istituto Gestalt Therapy Kairos. Ha conseguito presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore il master in Psiconcologia e il master in Prevenzione e cura della sessualità. Frate cappuccino ha ricoperto il ruolo di Ministro Provinciale e attualmente è formatore.
Sacre vanità e delirio creativo
RAFFAELE SCHIAVO
Cantante e musicista eclettico, compositore e performer teatrale, musicoterapeuta e formatore nell’ambito delle cure palliative. Esperto in canto degli armonici e musica antica dal Medioevo al Barocco, è ideatore del metodo socio-musicale VoxEchology e autore di diversi libri, di cui l’ultimo “Estetica della Performance” ed. Mimesis (2021).
MODERATORI
MARIA RITA LOMBRANO
Medico Spec. in Anestesia, Rianimazione e Terapia del Dolore.
Master in Cure Palliative, in Tanatologia, in Neurosemantica.
Responsabile del “Dignity Care Project” all’INRCA -IRCCS di Ancona.
Creatice Eclettica di Percorsi di FormEducazione dell’ESSERE che integra nel processo di Cura
Vincenzo Filetti
Docente di filosofia presso il liceo Gargallo di Siracusa, ha studiato il pensiero sistemico applicato al counseling e al business coaching presso la Central Connecticut State University, USA.
GAROFALO RITA
Medico, spec. in endocrinologia, psicologa e psicoterapeuta, si è occupata di diabetologia pediatrica e adolescenziale. Autrice di numerose pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali, in atto collabora con l’Istituto GTK e l’Istituto di Neuroscienze e Gestalt Therapy Nino Trapani.
VINCENT VAN GOGH. Nonostante le difficoltà
CLAUDIA KOLL/p>
Vincent Van Gogh è stato un grande artista. Tutt’oggi le sue opere trovano posto nelle esposizioni dei grandi musei e le riproduzioni raggiungono le case di una moltitudine di persone nelle maniere più diverse. Era suo desiderio «diffondere un’arte nuova, un linguaggio universale di amore, speranza, forza consolatrice» (A Theo, Arles 29 agosto 1888) e raggiungere non soltanto l’élite intellettuale, ma anche «il popolo perché ognuno possa avere in casa un quadro o qualche riproduzione che possa insegnargli qualcosa» (Cfr. A Theo, Saint Remy, 26 novembre 1889).
Vincent, dipingendo, parte sempre dalla realtà per poi raggiungere l’anima e restituirci, attraverso la sua arte, un «infinito tangibile» (A Bernard, Arles 29 luglio 1888).
Scrive al fratello Theo: «Vorrei dipingere uomini o donne con quel non so che di eterno» (A Theo, Arles lunedì 3 settembre 1888).
Le sue opere parlano ai nostri occhi e al nostro cuore, nonostante la sua vita sia stata segnata dall’incomprensione (in ambito familiare e anche artistico), dalla solitudine e dalla malattia mentale.
«Ecco, io, con la mia malattia mentale, penso a tanti altri artisti che soffrono moralmente e mi dico che la mia condizione non deve impedirmi di dipingere come se niente fosse» (A Theo, Saint Remy, 26 novembre 1889).
Vincent Van Gogh, nonostante le difficoltà, è stato un grande uomo, un artista, un poeta dell’immagine e dei colori.
LABORATORIO ESPERIENZIALE: “Quella danza che fluisce verso l’alterità”.
DARIO LA FERLA
Partendo da un’esperienza di danza primordiale, basata su un ritmo etero-indotto, riflettente il ritmo del polso cardiaco o carotideo personale, è possibile rivivere una originale forma di danza. Quella che sperimentiamo, alle origini della vita individuale, attraverso l’incontro sinestesico ritmico con il gesto materno. Che è accudimento ma che è anche fonte di confluenza fusionale tra madre e bambino. Il vissuto di dondolamento, del cullare, stereotipico, ripetitivo e inducente uno stato di fiducia e quindi di distensione, è anche primaria esperienza-ponte verso l’altro da sé. Il riconoscimento da parte della madre del ritmo endogeno del bambino, è, di fatto, un primo riconoscimento identitario, di bisogno primario. Nel riconoscimento e nella sua danza, i corpi si fondono. Soggetto ed oggetto sono armonica fusione d’amore.
Essere mossi in una esperienza di unificazione e con-fusione tra lo stimolo corporeo esterno al proprio limen somatico e il piacere del movimento che spontaneamente si armonizza, è esperienza di contatto nel desiderio e nel bisogno originale alla relazione, condizione anche assimilabile a contesti ipnoinducenti e a stati gestuali e comportamentali sterotipici, tanto in patologia quanto nell’uomo comune. L’abbandono che ne deriva conduce all’apertura e alla disponibilità ad “essere mossi da”. A volte a stati di possessione finanche a condizioni di dipendenza psicofisica.
Nella danza il movimento ripetitivo e fusionale all’oggetto ispirativo permette di incarnare l’essenza ispirativa e di tradurla come espressione psicosomatica. La dualità ripetitiva, nella danza, conduce a stati di trance di possessione corporea. Ma anche a stati psicofisici legati al sentimento religioso (ad esempio i dervisci rotanti o la danza sciamanica Hadra tunisina). La confluenza con lo stimolo evocativo prima ed evocato poi, può corrispondere a gradazioni ennesime fino a divenire, come nell’atto tersicoreo del coreuta del/nel coro tragico, fusione di soggetto e oggetto, di parola e gesto, di corpo artistico e corpo tragico. Questa condizione necessita di uno stato di alterazione, abbandono, offerta di sé, apertura psicofisica: essere mossi, attraverso uno stato psicomotorio in alterazione … dalla divinità invocata così evocata. In quello stato ponte, di attraversamento corporeo dell’incontro con la parola creativa che coniuga il teatro del sacro, i corpi in scena assurgono ad uno stato di alterazione, pontici verso la trasformazione dell’artista tra finzione e realtà, conduttori dello spettatore vivente in quello stato pervasivo che è lo psicodramma collettivo del teatro del tragico. Quel meraviglioso ponte atemporale artistico che rimane imperdibile cerimonia di vita.
Ricerca della felicità: è follia o ha una sua logica?
Giustina tocco
Ha ancora senso parlare di felicità? In questo periodo storico, sembra un tema controintuitivo e
quasi irrazionale da proporre. Eppure l’uomo ancora oggi tende a ricercare la felicità. Questa non
può essere ridotta a una semplice formula lineare, ma va indagata nei molteplici aspetti della vita
umana. L’idea è che, per raggiungere la felicità autentica, a volte è necessario sfidare le convenzioni
logiche e abbracciare un approccio più creativo e non convenzionale. In questo contesto, esplorare
la connessione tra mente, corpo e ambiente potrebbe portare a una comprensione più profonda della
complessità della felicità e del benessere umano, sfidando le tradizionali logiche e aprendo la mente
a nuove prospettive.
Accostamenti tra i principi corporeo-relazionali della Gestalt Therapy ed alcuni
scritti di don Tonino Bello
Maria Teresa Meloni
Il corpo e la parola sono concetti presenti sia negli scritti di don Tonino Bello
che nella Gestalt Therapy.
I diversi generi letterari e il linguaggio utilizzati negli scritti di don Tonino, si
relazionano con pienezza con questi principi gestaltici.
Don Tonino è capace di rivestire di forma nuova, accattivante, di tradurre con
parole ed immagini del nostro tempo, le esigenti parole del Vangelo. Egli cerca di
cogliere e di fondere, nel linguaggio scritto e parlato, nel fluire della narrazione, il
sacro e la storia, il mistero di Dio, i volti e le situazioni dell’uomo, in una sintesi tra
trascendenza e storia. Sceglie di annunciare il Vangelo mediante il linguaggio
metaforico. Si tratta di un linguaggio figurato che “blocca” l’ascoltatore
nell’attenzione, fa intravedere, “obbliga” alla riflessione.
Il corpo e la parola sono due modi che l’uomo ha per comunicare e per
entrare in relazione, vengono proposti nella Gestalt Therapy, dove ogni parola
emerge dal corpo di un Io e arriva ad un Tu (corpo altro a cui è rivolta) sostenuta
dall’intenzionalità di contatto.
Questi aspetti sono fondamentali nella relazione di aiuto dove l’ascolto
empatico, l’esperienza concreta e la parola che viene restituita, è una parola
corporea, incarnata, nata dall’intercorporeità che viene a crearsi.
Il Corpo di Cristo, il corpo della Chiesa, il corpo degli sposi.
Ambrogio Giuffrida
Il triplice corpo di Cristo, corpo del Gesù storico, corpo eucaristico e corpo ecclesiale, ha assunto
molto gradualmente nella coscienza dei teologi e dei fedeli il significato ed il rilievo attuali. Si pensi
che, mentre nel primo millennio della storia del cristianesimo quando si parlava di “corpo di Cristo”
si intendeva dire la Chiesa, nel secondo millennio c’è stato come un’inversione, “corpo di Cristo” è
passato a significare l’Eucarestia. Il mio lavoro partendo da una visione antropologica di tipo
olistico, che non contrappone in maniera platonica il corpo all’anima, si propone di mettere a fuoco
l’essere umano nella sua complessità di un tutt’uno di corpo animato e di spirito incarnato. E ciò a
partire dalla realtà teandrica (Dio-uomo) del Cristo che detta la premessa e la prospettiva
ermeneutica dell’intera mia trattazione riassumibile nell’adagio patristico: “Caro Salutis cardo”, la
carne è il cardine della salvezza (Tertulliano, De carnis resurrectione, 8,3: PL 2,806).
Nella carne dell’uomo, ovvero nel nostro corpo, è depositata in maniera chiara (se si è allenati ad
ascoltarlo) tutta la nostra storia, la verità di noi stessi, quello che veramente siamo, quello che
veramente ci dà gioia ed è desiderabile, ma anche quello che ci fa soffrire, ci distrugge e genera
paura; nel corpo sono depositate le regole, un vero e proprio protocollo, dell’entrare in contatto
relazionale con gli altri esseri e con la realtà in cui siamo immersi.
Già dai primordi, il corpo dei martiri e poi successivamente dei confessori e degli altri santi è sato
oggetto di venerazione (culto delle reliquie). La visione contemplativa del punto di arrivo della
storia espressa in maniera profetica nel libro dell’Apocalisse di san Giovanni ci rivela che nella
Gerusalemme celeste i corpi saranno presenti, partecipi della stessa gloria del Cristo Agnello
immolato e risorto. Nel capitolo secondo della tesi illustro il recente affresco completato da pochi
mesi nella mia chiesa parrocchiale, perché con esso si è cercato di rendere visibile un dato che a
volte si può rischiare di dare per scontato: la storia di ciascuno dei santi e beati, la loro corporeità,
il loro essere compresenti pur di epoche diverse, rende la comunità radunata per l’assemblea
liturgica sempre più consapevole che la storia di ciascuno è risposta ad una chiamata ad essere la
Chiesa-corpo-di-Cristo sua sposa bella.
La chiesa domestica costituita dagli sposi cristiani e dai figli frutto del loro amore, è Chiesa a tutti
gli effetti, come parte di una Chiesa locale o particolare. Il corpo degli sposi che vivono questo
dinamismo a motivo della loro fede e dell’appartenenza ecclesiale, ne riceve una connotazione ed
una energia particolare. L’amore degli sposi cristiani è come per ogni coppia del genere umano, un
amore esclusivo che ha una connotazione erotica e che nel corso della vita va maturando sempre
di più fino ad essere un amore oblativo. Nella coppia che sviluppa tutto il cammino di crescita, nel
quotidiano entrare in relazione con contatti che portano entrambi a conoscersi e rispettarsi nella
loro diversità, a superare gli inevitabili momenti di stanchezza o di conflitto, si evidenzia che viene
superato il vivere l’altro come proprietà esclusiva, causa questa di enormi problemi se non di esiti
tragici. Gli sposi credenti mettono ogni impegno a togliere dallo sfondo ed a portano in figura del
loro vissuto che davanti a Dio sono “fratelli”, responsabili della salvezza (leggi pienezza di vita,
felicità) l’uno dell’altra, ed il corpo di Cristo che è la Chiesa di cui sono membra ed il Corpo di
Cristo di cui si nutrono nell’Eucaristia sono la fonte inesauribile a cui attingere quotidianamente.
L’adattamento – da antidoto alla psicopatologia al ruolo di promotore di sviluppo e crescita
Anna Loisi
L’esistenza di ciascuno è costellata di condizioni, ostacoli, difficoltà e prove, più o meno importanti o ardue,
che bisogna affrontare o a cui non è possibile sottrarsi. Di fronte a tali situazioni, che minano uno stato di
equilibrio e che definiamo “fattori di stress” o, nei casi più gravi, “traumi”, le reazioni umane possono
essere molto diversificate e collocarsi lungo il continuum che va dalla psicopatologia (vulnerabilità), alla
resistenza, intesa come facoltà di sopportare l’urto, come solidità, alla resilienza, che può essere definita
come capacità di mantenere relativamente stabili i livelli di funzionamento psicologico e fisico anche nei
casi di esposizione ad eventi “perturbanti”, fino all’Adattamento Creativo, ovvero la capacità non soltanto
di sopravvivere, di tornare allo stato di equilibrio precedente, ma anche di adattarsi, inteso come
modificarsi e crescere, costruendo una nuova integrazione, con creatività.
Le differenze individuali relative alla risposta allo stress e al trauma non sono legate solo a tratti individuali
e temperamentali ma sono frutto di vari fattori, da quelli psicodinamici a quelli psicobiologici e sociali, che
possono interagire tra loro a più livelli. La rassegna degli apporti scientifici di diverse discipline (dalle
neuroscienze, alla PNEI, all’epigenetica, alla teoria della Gestalt therapy) mette in risalto aspetti diversi di
un fenomeno complesso e multidimensionale, un processo dinamico di interazione che per essere studiato
e compreso rende necessario lo sviluppo di una visione integrata ed integrale.
Solo un tale tipo di integrazione può consentire di capire come contribuire al processo di reintegrazione
resiliente (che necessita creatività e genera creatività) di fronte allo stress e al trauma in atto, e come
promuovere e creare azioni che rendano concretizzabili le potenzialità individuali di un adattamento
positivo in via preventiva. Con la speranza di trasformare la vulnerabilità in possibilità di evoluzione e
crescita e il dolore in qualcosa di fecondo.
Le stimmate di Francesco d’Assisi: logica e follia
GAETANO LA SPEME
Francesco d’Assisi, 800 anni fa sul monte La Verna, riceve le stimmate di Gesù nel suo corpo. E’ un’accadimento mistico e corporeo, una guarigione e una ferita, un evento relazionale. Follia e logica si abbracciano. E’ il compimento di un processo e l’inizio di una nuova storia.
In quegli anni Francesco sperimenta che la passione per il vangelo, senza umiltà, può dividere. Lui sente il dramma del rifiuto e della solitudine. Entra in un periodo di depressione. Sorgono domande importanti, valide anche oggi: Come continuare ad avere interesse e passione per coloro che non hanno lo stesso stile? Come evitare di cadere nella tentazione di disprezzare o di isolarsi, di fuggire o di diventare violenti con coloro che hanno sensibilità spirituali, ecclesiali, teologiche diverse dalla propria?
Francesco sperimenta che «uno dei drammi costitutivi del vivere insieme non è quello del fratello debole o cattivo, ma del fratello «diversamente ispirato»». Alla Verna Francesco scopre che «la sfida della fraternità è quella di rinunciare al pensiero unico e rispettare, ascoltare e confrontare le ispirazioni di ognuno per giungere a una fusione delle ispirazioni» . Un grande cammino di crescita umana e spirituale: rispettare, ascoltare e confrontare le ispirazioni per giungere a una fusione di ispirazioni. Follia e logica vengono integrate e suggeriscono a Francesco questa via: Non pretendere più che la propria ispirazione sia l’unica ispirazione possibile, non pretendere che gli altri siano cristiani migliori, non schivare i frati più spirituali di lui, non vergognarsi delle contraddizioni dei frati fragili.
Le stimmate conformano Francesco a Gesù crocifisso e risorto: Cristo muore fratello per i fratelli e risorto, da fratello, va in cerca dei fratelli.
Solo dopo la Verna Francesco può riprendere a cantare e benedire. E compone per frate Leone Le Lodi di Dio altissimo e la Benedizione.
La follia della croce e la logica del Vangelo portano Francesco a far si che le sue ultime parole siano cantico di lode a Dio e benedizione agli uomini, suoi fratelli.
Amaranto
Francesco Cataldo
“I brani di Francesco, belli come una carezza infinita destinata a perdurare per un lungo viaggio”.
Cosi il regista Pupi Avati definisce la musica del compositore siracusano Francesco Cataldo in occasione dell’uscita del suo terzo album “Amaranto” (Alfamusic 2024).
L’album, dedicato all’amore universale, segna il ritorno al pianoforte ed un definitivo allontanamento dagli schemi del Jazz. Meditazione e ricerca spirituale quotidiana hanno guidato questo cambio di rotta alla ricerca di una voce artistica profonda e personale che possa esprimere meglio l’essenza del compositore, libera da tecnicismi sterili.
In questa nuova avventura artistica Francesco è coadiuvato da due compagni di viaggio: il pittore di fama mondiale Stefano Lazzari (pittore personale di Papa Francesco) ed il celebre regista e documentarista Rai Rosario Montesanti.
Lazzari ha dipinto e regalato a Francesco un meraviglioso quadro per la copertina dell’album “Amaranto” e Montesanti ha realizzato un cortometraggio che racconta la genesi del brano “Vito raccontami” dedicato al nonno paterno di Francesco e registrato presso la St Paul’s Church Within the Walls a Roma.
Come lo ha definito la celebre scrittrice newyorkese Elzy Kolb:
“Amaranto, un autentico atto d’amore”
Dietro la verità
Giorgio Bonaccorso
Che cos’è la verità? La saggezza antica e moderna ha tentato di indicare l’essenza della verità. E così la verità è stata intesa come corrispondenza tra il pensiero e la realtà. Oppure, come vuole l’a-lètheia greca, la verità è stata intesa come il togliere il velo, come uno svelamento. Tutto molto saggio e profondo, ma non abbastanza profondo da raggiungere la follia che accompagna la verità, ossia ciò che è dietro la verità. Se la saggezza reclama la verità che appare, il davanti della verità, ci vuole la follia per accorgersi di ciò che è dietro la verità: la follia di dire ciò che non si può dire, di parlare di ciò che non si può descrivere in modo compiuto e definitivo. Anzi, ci si può chiedere se non sia folle proprio voler evitare del tutto la follia dell’indicibile e trattare la verità come un pagliaccio vestito dei panni che la nostra logica le ha messo addosso.
Cosa è la follia?
Prof. Eugenio Borgna
Non è facile rispondere a questa domanda, e nondimeno vorrei avviare il mio discorso citando un pensiero folgorante di Franco Basaglia, al quale si deve il cambiamento radicale nella cura della follia, che ha portato alla chiusura dei manicomi. “Io ho detto che non so che cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. E’ una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia”. Sì, la follia esiste, ma non esiste una sola follia: la prima grande distinzione è quella che separa i disturbi psichici di matrice somatica, causati da lesioni delle formazioni cerebrali, delle quali si occupa la neurologia, e i disturbi psichici che non sono riconducibili a questa causa. Una distinzione, che si accompagna ad una diversa sintomatologia: quella dei disturbi psichici di matrice somatica è contrassegnata dal deserto emozionale e razionale, mentre quella dei disturbi psichici, che non hanno cause somatiche, è contrassegnata da un diverso modo di rivivere pensieri ed emozioni, e di essere in relazione con i pensieri e le emozioni degli altri. Nel corso delle mie riflessioni vorrei parlare dei disturbi psichici, che non hanno fondamenti biologici, e che dovremmo considerare come una possibilità umana.
La follia tra thanatos e ghelos nella lacerazione sociale dell’identità, da Aiace ad oggi.
ARGENTINO PAOLA
La follia infligge all’eroe il marchio del ridicolo nella “civiltà della vergogna” che si esprime antropologicamente nel ghelos, la risata beffarda e malevola di universale discredito. La profondità della ferita sociale lacera l’identità nell’autostima, annulla il Sé relazionale, e porta a morte per autoannientamento. Dalla tragedia di Aiace ad oggi che cosa è cambiato? Il giudizio sociale sulla follia è ancora terribilmente vincolante? E l’altra faccia della medaglia… quanto è vantaggioso, invece, “Il berretto a sonagli”?
“ostinatamente umano” – declino e delirio comunicativo tra tecnica e mortalità –
GIOVANNI MORUZZI
Scopo della relazione è indagare sul dialogo tra tecnica ed umano quando si percorrono
i chiaroscuri della mortalità.
La voce della tecnica, rigidamente coinvolta in un sicuro percorso, sembra straboccare
delirio di onnipotenza e di onnipresenza quando saggia la caducità della condizione umana.
Parimenti, in qualche modo, lo stesso delirio sembra appartenere all’essere umano
quando prova a coniugare la propria ragione all’irragionevolezza del proprio finire.
Mentre talvolta la tecnica medica assume le vesti del “miles gloriosus”;
l’essere umano coinvolto in indecifrabili passioni (fedra innamorata di ippolito), prova a
irrigimentare norme che possano salvarlo, pur prendendo coscienza di un limite inaccettabile
(aiace vuole riscattare l’onta del delirio).
La tecnica medica, sprezzante, rifugge alle passioni violente dell’umano, non ne
costruisce una dimora di senso e l’annichilisce fino al suicidio (ippolito- fedra).
L’uomo naufrago della sragione nella ragione (l’instillatrice atena) finisce per assumersi
la “colpa” di aver accolto il seducente piacere della tecnica come dogma (aiace pensa di
uccidere gli achei), nonostante la restituzione svelante della propria reale condizione (aiace
comprende di aver ucciso solo buoi e montoni).
Per noi tutti, il prendersi cura è un viaggio periglioso, necessita di un intelligente spirito
di adattamento e di una profonda consapevolezza dei propri limiti, anche quando le giuste
armi di cura e le giuste ragioni sembrano appartenerci, talvolta ci vengono ingiustamente
sottratte (aiace-odisseo), ma questo non compromette la dimensione della cura, che supera la
morale comune e ostinatamente sosta sull’unicità dell’effimero (odisseo supera la disputa e
convince per la giusta sepoltura di aiace).
Le forme dell’esserci e del divenire nella logica inclusiva
GIOVANNI SALONIA
La logica è stata ed è considerata una sorta si cartina di tornasole dell’esserci. È logico?
Non é logico. Questi i dilemmi dentro i quali a volte si insinua la sottile ipotesi della
follia. La follia é logica? E può la logica essere folle?
Si tratta di aprirsi a livello antropologico, educativo e clinico ad una epistemologia nelle
quale le logiche rispondono al paradigma della matrioska russa. Da una logica ‘bella’ ad
un’altra con un’altra forma e altra bellezza. La cultura e la clinica sono gli spazi in cui
prende forma l’artista che – come intuì Otto Rank – è il superamento dell’aporia. Ossia il
nuovo, l’inedito che é logico e folle, ossia nè logico né folle, perché imprevedibile prima e
non scomponibile e il suo grembo e il suo profumo é il ‘segreto e la grazia’ dell’incontro.
Inganno e tormento del principio di non contraddizione
Agata Pisana
“Quale è la caratteristica principale dell’uomo, che lo differenzia da tutti e che lo rende quel che è, cioè quella specie animale dominante che ha saputo creare la civiltà, la cultura, il progresso? Quale dunque la caratteristica che lo fa felice e soddisfatto della sua vita?”. Domanda facile! La sappiamo tutti: “La razionalità! L’uomo è l’unico essere capace di razionalità. Sa pensare, riflettere, far di conti, scrivere e leggere… come non essere appagato da tutto questo? Domanda facilissima!”. Risposta giusta? No! Risposta sbagliata. Perché se è vero che l’uomo è dotata di capacità riflessiva non è vero né che questa appartiene solo alla sua specie né – soprattutto – che questa lo fa felice o che essa sola ha generato cultura e progresso.
Il più grande epistemologo moderno, Carl Popper, dice che la scienza, grande vanto umano, non andrebbe avanti se si basasse solo sulla razionalità, che anzi è proprio la non razionalità che le ha permesso di fare i passi da gigante che ha fatto e fatto fare all’uomo. “Tu, scienziato, hai trascorso tutta la tua vita a cercare di capire la logica dei fenomeni naturali per prevedere il prossimo evento? Bene! Prova a pensare al contrario e di sicuro capirai più di quanto sai oggi” – ci dice.
L’esperienza e il calcolo, da soli, non insegnano nulla. Altrimenti ci finisce come al tacchino di cui parla Bertrand Russel: dopo aver trascorso tutta la vita a cercare di capire la regola d’oro che determinava quel meraviglioso rituale per cui ogni mattina la massaia gli dava da mangiare, si sentì pronto a festeggiare la sua grande scoperta ‘scientifica’ proprio il giorno in cui la massaia lo portò in tavola bene cucinato per festeggiare il Natale con la sua famiglia. Né tanto meno, se anche avesse capito davvero l’arcano segreto di quel rituale, ne sarebbe stato certo felice.
Tutto dà la razionalità tranne la felicità: quante volte ci siamo detti che avremmo preferito non sapere qualcosa? Quante volte, dopo aver capito, abbiamo sentito amarezza, rabbia, dolore! “Beato lo sguardo ebete degli animali” – diceva un altro grande filosofo: Schopenhauer.
Eppure guai a noi se non sappiamo: abbiamo arsura di sapere, spasmodico bisogno di ricostruire i fatti, di trovare la logica, di comprendere intenzioni, particolari e incastri. “Dimmi”, “Spiegami”, “Ho diritto a sapere”… sono frasi con cui incalziamo gli altri, sperando di alleviare i nostri tormenti, salvo poi, dopo aver saputo e capito, ripiombare in una costernazione più profonda.
E se anche lo scoprire la logica degli eventi e dei comportamenti ci desse pace, ci ritroveremmo ugualmente poi dinanzi ad un quesito ancora più ostico: e ora che so, cosa faccio? Già. Che farcene dell’aver capito? Nessuna pace nello scoprire la ‘verità’ delle cose, anche perché chi ci potrebbe assicurare che è davvero questa la verità? Siamo principi che sogniamo di essere barboni o barboni che sogniamo di essere principi che sognano di essere barboni?
E chi potrebbe alzare la mano e giurare con certezza di conoscere perfettamente se stesso? “Ho capito tutto della vita – diceva il grande Montaigne – tranne me stesso”.
Folle Aiace che ha macellato degli animali credendoli uomini o folle chi macella in guerra e per le strade veri esseri umani? Più folle quando, preso da un delirio, ha commesso questa carneficina o quando non perdona a se stesso di essersi ingannato?
La logica umana è stata considerata da sempre fondata sul principio di non contraddizione per cui se A è uguale ad A e non-A è diverso da A, allora X o è uguale ad A o è diverso da A, e ciò sembra la base di ogni certezza, garanzia di inconfutabilità, indicazione sicura per una via di saggezza, ma a quanto pare non è affatto così: proprio nel cercare quanto fosse più giusto, gli umani hanno trovato quanto è meno giusto. Ma – cosa strana – non solo sembriamo continuare ad ignorarlo, ma ci accaniamo anche, paradosso dei paradossi, a cercare di capire perché ciò che ci sembra certo non lo è. Forse non è davvero certo? Forse sbagliamo i criteri dell’analisi? Forse sono errati i presupposti o errate le conclusioni? Forse siamo sbagliati noi?
Kant a questa conclusione radicale era arrivato e, ormai alla fine della sua vita, ha in pochi anni dato una sferzata così drastica a tutto il corso del pensiero filosofico da aver fatto definire l’intera storia della filosofia pre e post-kantiana. Sembrava aver davvero trovato il bandolo della matassa, ma le cronache ci dicono quanto pieno di manie, ossessivo e lontano dalla serenità egli fosse nel quotidiano. A parte il fatto che si scoprì presto che quella che sembrava la fonte dell’inganno tale non era affatto.
Davvero il più grande filosofo fu Socrate che dichiarò sempre di sapere di non sapere? La sapeva forse più lunga di chiunque altro, dato che dimostrò poi di sapere molto bene cosa sapeva.
“Un baratro è l’uomo e il suo cuore un abisso” – recita il salmo e ci dà una luce, ma non ci rassicura affatto.
Non ci resta che continuare a parlarne insieme.
Intelligenza artificiale emotiva: risorsa o follia?
Maria Luisa Di Pietro
L’affettività, intesa come capacità di provare emozioni, sentimenti e passioni, deriva dal termine latino afficere, che significa influenzare, produrre un cambiamento. Un’esperienza, un incontro, un ricordo, possono suscitare reazioni positive o negative che coinvolgono – inevitabilmente – sia la psiche sia il soma. Reazioni affettive che svolgono – a loro volta – un ruolo significativo nelle relazioni umane e nel processo decisionale. Comprendere, utilizzare e gestire le proprie emozioni per migliorare le relazioni e la comunicazione con gli altri, per superare le sfide e risolvere i propri conflitti interiori, sono frutto di quella intelligenza emotiva che richiede per svilupparsi un graduale percorso di crescita personale. Può una macchina, per quanto “intelligente”, sostituire la complessa sfera dell’affettività umana e sperimentare tenerezza, gratitudine, bontà, o – di contro – rabbia, odio, vendetta? Può una macchina, per quanto “intelligente”, sviluppare un’intelligenza emotiva o emozionale?
Seppur annunciato, sembra che le attuali forme di Intelligenza Artificiale (IA) non siano in grado di provare emozioni, ma possono invece imitarle. D’altra parte, alla IA non si chiede solo di svolgere attività che richiedono procedimenti razionali e logici (percezione visiva, riconoscimento del linguaggio, capacità di prendere decisioni, traduzione da una lingua all’altra), ma anche di comprendere e interagire con gli esseri umani. Anzi, si ritiene che il linguaggio delle emozioni possa migliorare la stessa usabilità dei sistemi di IA.
Attraverso le fasi di emotion modelling, emotion recognition, emotion generation, emotion expression e emotion influence, si consente alla IA di imitare le emozioni umane e si può intervenire – nel contempo – su di esse per condizionarle e modificarle. Le emozioni possono essere così sintetizzate, analizzate, previste e valutate. E, ancora, è possibile identificare e misurare le emozioni in modo da poter dedurre lo stato emotivo o l’espressione di un soggetto dal suo linguaggio paraverbale o non verbale. A questo punto, la IA viene messa nelle condizioni di generare, esprimere e simulare emozioni in modo naturale e realistico e di comunicarle e trasmetterle, influenzandole e cambiandole anche in senso positivo al fine di risolvere conflitti o altri problemi. Una sorta, dunque, di IA emotiva capace di riconoscere, identificare e gestire le emozioni umane allo scopo di raggiungere determinati obiettivi. Sarà una risorsa per l’essere umano o potrà generare “follia”?
Quali potrebbero essere le reazioni ad un sistema che scava e cattura quanto di più intimo c’è nell’essere umano, ovvero le emozioni e i pensieri? Le espressioni del viso e degli occhi, la gestualità delle mani, le posizioni del corpo: tutto ciò che manifesta l’Altro dell’essere umano diverrebbe un dato da elaborare. E se – come scriveva Cassiodoro nel De anima – “Dal volto si riconosce la saggezza dell’uomo. Raffigurati nel nostro volto appaiono gli occulti pensieri e attraverso questa parte del corpo si intravede l’interiore situazione dell’anima e della volontà. Il nostro volto […] è proprio come lo specchio dell’anima, si possono però osservare le sue manifestazioni in maniera chiarissima dall’aspetto del volto”, non sono solo le emozioni ad essere catturate ma è l’anima stessa dell’essere umano.
A fronte di una situazione ancora non ben definita, è inevitabile un richiamo alla prudenza e alla responsabilità morale per non perdere mai di vista la realtà su cui si interviene: l’essere umano e la sua sfera più intima e inviolabile. Una responsabilità, che riguarda tutti: da chi progetta, vende e utilizza i software, a chi inserisce, seleziona, fa lavorare i dati e li utilizza. Una responsabilità, che chiama in causa anche i doveri verso le generazioni future. Ricordando sempre che il protagonista non è né l’IA né il machine learning né l’algoritmo Il protagonista è l’essere umano, ovvero l’unico vivente capace di scegliere e di condizionare – in modo positivo o negativo – la realtà che lo circonda e che può valutare, sempre che ne sia ancora capace, l’accettabilità di una tecnica. Ma solo dopo aver risposto alla domanda di fondo: a quale verità si vogliono conformare le proprie scelte?
SACRE VANITÀ E DELIRIO CREATIVO
Raffaele Schiavo
La ricercata follia dell’artista per un’estetica musicale delle relazioni d’aiuto.
La ragione per cui uno dei brani musicali più popolari del rinascimento prende il nome di Follia potrebbe risiedere nel contrasto tra ciò che rende rassicurante i tratti identificativi della sua struttura melodico-armonica e la possibilità che un’intrigante alterazione possa riconfigurarne la linearità originaria. Il processo creativo che ne consegue conduce a una serie di “variazioni al tema”, la cui concreta e sofisticata responsabilità è data dalla continua diversificazione delle condotte musicali, indotte a modificarsi l’una nell’altra, nella ricerca di una bellezza formale che incarna tutta la complessità della natura umana. All’interno di questo organismo musicale, le dinamiche
relazionali muovono la concertazione delle idee e impongono schemi di proposte e risposte tra le diverse voci in campo. Il passaggio successivo è la sovrapposizione a intreccio fra tutte le parti in gioco, tutte insieme appassionatamente coinvolte in un amabile contrasto. È questo armonico conflitto che ben restituisce l’ineffabilità esistenziale di una specie animale predisposta alla pazzia e tuttavia capace di trasferire, nonché sublimare, le sue folli necessità sopra un felice disegno di bellezza comportamentale, assolutamente occidentale e rigorosamente estetico, in quel capolavoro di architettura relazionale che è la Polifonia: un’arte compositiva che resta motivo di elogio e di avanzamento culturale, incomparabile col resto del mondo monodico. Davanti a un tale stupore ingegneristico, i termini che fanno tuttora bene a questa sensibile pratica musicale, alle sue regole e ai suoi tecnicismi, sono tuttavia curiosamente presenti, anche se con le dovute forzature, nei migliori manuali di psichiatria: dissociazione ed ecolalie, ossessiva imitazione e coazione a ripetere, paradossale incoerenza, calcolata ostinazione, instabilità emotiva, narcisismo a oltranza e finzione, insieme a tante altre variazioni sul tema speculare della legittimità e del riscatto, rispetto a un’innata spinta criminale verso la stupidità e che è alla base di una società ormai alla deriva. La domanda folle è: quale dimensione umana avremmo oggi, se si fosse realmente sviluppato tra le persone un comportamento musicalmente polifonico? La follia della novità andrebbe sperimentata e poi suonata al mondo. E di santa ragione.
Ossimori del suicidio tra logica e follia, dalla tragedia alla modernità
Erica F. Poli
La vita morta e la morte viva: il suicidio cuce l’impossibile attorno al nodo di una domanda che non ha soluzione, ma che appare continuo interrogarsi sul senso. Accade in piena morente vita e in vuota vivente morte come una soglia aperta sul mistero. Al crocevia della legge della logica che pare costringere al suicido come ultimo atto di autodeterminazione individuale, con la legge della follia che sembra indurre l’atto estremo secondo una logica di sovvertimento. Il suicidio è una delle grandi aporie della vicenda umana: la tragedia greca ne porta esempi iconici in Aiace e Ippolito, la psicoanalisi costruisce uno dei suoi nuclei concettuali fondativi attorno alla dinamica del lutto e della melanconia, la poesia sembra danzare costantemente alla soglia tra la pulsione della morte che costringe al parto del verso e la pulsione poietica della vita che ancora tenta la creazione. E quale natura del suicidio nella modernità liquida e ipertecnologica? Quale interpretazione per i dati del crescente numero di suicidi nella società occidentale in particolare modo nei giovani? Si può tentare di percorrere in forma aporetica la migrazione semantica e ontologica del suicidio nell’oggi, non certo per trovare risposta all’ossimoro costitutivo che lo abita, ma per continuare, anche tragicamente, ad interrogarlo.
Generazione Z: una follia per sopravvivere?
GILBERTO BORGHI
“Prof… sono cose che possono tranquillamente capitare tra noi giovani”. Questa frase è tornata più volte nelle discussioni che ho avuto nelle classi dei miei studenti. Parlavamo del caso di Giulia Cecchettin, in quarte e quinte del liceo dove insegno. Un punto di osservazione interno, perciò, che mostra la percezione di sé stessa della “generazione Z” e contemporaneamente la valutazione implicita di queste azioni, da cui trapela un dubbio: normalità o follia?
Ovvio che molto dipende da cosa si intenda con queste due parole. Normalità è un termine che può avere un senso solo come dato statistico, cioè il comportamento rilevabile della maggioranza. Che non ha, perciò, possibilità di essere utilizzato in sede di valutazione etica e di senso delle azioni. Follia, sul piano psichico, indica la condizione di distacco dalla realtà, più o meno elevato e stabile, che un individuo può vivere.
Come valutare, allora, quello che questa generazione sta vivendo? Qualche anno fa, nel mese di agosto, stavo entrando all’”iper”. Non ero sicuro di averlo intravisto bene e di scatto sono tornato con lo sguardo a cercarlo. Incredibilmente lui! Un mio studente diplomato tre mesi prima nella mia scuola con un buon voto, come tecnico grafico pubblicitario. Se ne stava lì nell’angolo dell’ingresso seduto per terra con tutto l’armamentario tipico del “punkkabbestia”, cane compreso. Il suo socio allungava la mano per chiedere qualche spicciolo. E lui scherzava con l’ammasso di pulci. “Sto qui per qualche mese a godermi lo spettacolo, prof!”. Se ne era uscito con una frase che era un programma. “Poi comunque penso che lavorerò da un mio amico che fa tatoo, ma per ora mi rilasso!” Mi rilasso!??
E ancora, sempre all’iper. Entro e attendo una persona che mi deve raggiungere, nella hall vedo sei ragazzi seduti per terra. Stavano “armeggiando” tutti e sei coi propri telefonini, senza nessuna comunicazione tra di loro. Ad un certo punto, una di loro si è alzata di scatto, e con rabbia ha urlato ad uno degli altri: “Sei uno stronzo!”. Poi è uscita quasi di corsa dall’iper. Una sua amica, si è alzata e ha detto verso lo stesso ragazzo: “Potevi fare a meno di scriverlo!” proseguendo a rincorrere l’amica. Mi si è accesa la lampadina: pur essendo in presenza fisica stavano chattando tra loro.
Solo alcuni esempi di atteggiamenti “quotidiani”, meno visibili delle situazioni estreme che ben conosciamo: disturbi alimentari, dipendenze, ritiri sociali, attacchi di panico, autolesionismo, violenze, esperienze estreme. Ma proprio perché quotidiani, perciò più “possibili”, forse ci dichiarano che queste “stranezze” sono molto più diffuse di quanto creda chi non frequenta questa generazione.
Sono atteggiamenti di follia? Tecnicamente no. Ma, come il giudizio iniziale sul caso di Giulia Cecchettin suggerisce, per lo meno c’è un’alterazione della percezione della realtà, che sembra non essere così raro in questa generazione. Forse è una strana forma di accesso alla realtà metà strada tra una “normalità” ipotizzata e una “follia” desiderata.
Si può cercare di rintracciare dei caratteri e delle cause che ne spieghino la presenza sempre più massiccia in questa generazione, mettendo in rapporto questo stato di cose con il cambiamento epocale che stiamo attraversando e che ci ha portato, come società e cultura del mondo “avanzato”, a lasciare la modernità alle nostre spalle e ad inoltrarci in una forma del vivere che ancora non conosciamo bene e che, per ora, chiamiamo post modernità. In questo attraversamento di una soglia esistenziale i giovani stanno cercando di trovare un equilibrio che sia possibile, perché di sicuro, i modi con cui si diventava adulti 40 anni fa, oggi non sono più percorribili da loro.
Ad esempio oggi, la generazione Z fatica moltissimo a mettere in asse tra loro pensieri, emozioni e istinti, e spesso lasciano l’impressione di aver rinunciato a questa operazione, accettando di vivere dentro come se mente, cuore e corpo fossero dei separati in casa. Allo stesso modo hanno una percezione del rapporto spazio – tempo del tutto propria, dove il tempo è qualcosa di reale, cioè vale solo il presente, mentre lo spazio è virtuale, cioè in ogni latitudine si può vivere la stessa forma esistenziale. E ancora, fatica moltissimo a gestire relazioni, soprattutto quando gli affetti si fanno sentire: vivono di tantissime emozioni e di pochissimi sentimenti perché questi sembrano degli illustri sconosciuti.
Forse non è una follia generazionale, ma di sicuro questo loro modo di vivere ci sollecita, come operatori che li accompagnano nella crescita, ad una attenzione maggiore, affinché queste forme esistenziali che vivono, diventino “segnali” comunicativi per noi.
Tra Eros e Aidos. Per una lettura gestaltica di Fedra
ANTONIO SICHERA
La Fedra di Euripide è una creatura travagliata dalla memoria dolorosa della potenza di Eros e dal senso dell’Aidos. La tragedia mette ancora noi, lettori di oggi, di fronte alla fatica e all’ordo dell’amore, di fronte alla quale la GT offre una strada.
“Melancolia” dell’uomo di genio: dove sfuma la follia compare la visione
CHIARA GATTI
Tra le disposizioni fondamentali che ispirano la pittura romantica, e non solo la pittura dell’Ottocento europeo, troviamo certamente i temi dello squilibrio, dell’eccesso e della vertigine che si affaccia su un oltre che l’artista stesso pare non dominare completamente nemmeno a livello biografico, prima ancora che artistico e professionale. Se è ben noto infatti l’interesse dei pittori di questa corrente per una ricerca spinta sull’emozionalità e sull’eccitazione dei sensi, la quale en plair air sembra trovare il massimo dell’appagamento nell’impastarsi a contatto con la natura, si scopre come l’aspirazione al sublime sia sempre più il focus pittorico che anima parecchie delle loro opere. E che cos’è il “sublime” in fondo se non quella categoria estetica, vecchia di secoli, di un’arte liminare (etimologicamente da sub limen>oltre il limite) di un animo tormentato, ancor prima che di una ricerca pittorica? La biografia spesso inquieta di questi esponenti, appunto “romanticamente” tortuosa e arrovellata nell’ascolto del proprio cuore, può così giungere alla rappresentazione di visioni pittoriche dove si incontrano uomo e natura, e si sprigionano scenari nei quali la solitudine esistenziale dell’individuo trova un teatro idoneo a immedesimarsi pienamente e ad esprimere spesso proprio quello che non viene considerato dicibile. In quest’ottica dunque trova spazio tutto il genere di tematiche romantiche tipiche dell’area nordeuropea quali rappresentazioni notturne di ruderi, tombe illuminate dalla luna, grandi orridi risuonanti oppure impressionanti scenari paesaggistici come eruzioni vulcaniche o impetuose e incontrollabili masse d’acqua… Qui tutto concorre a generare una instabilità profonda ed una solitudine inesprimibile volutamente cercata, ma anche impossibile da evitare. E infine si è condotti, anche come osservatori, a scontrarsi contro quel limite dove si esprime pure una possibile forma di disagio mentale, di delirio o allucinazione che sfuma in una forma estetica, la quale sola sa darne ragione, sebbene non possa risolverla.
Un sublime che si fa figura pittorica perché in ascolto di due altre profonde istanze dell’animo presenti nella sensibilità romantica: la Sehnsucht, inteso come “struggimento” e come “malattia del doloroso bramare” e la melancolia, paragonabile a vaga e indistinta tristezza, che tormenta l’uomo fino a condurlo a stati depressivi cronici. Ed è esattamente in questo interstizio di umani sentimenti, tra la sofferenza esistenziale e la patologia clinica, che si pone l’arte di un grande pittore romantico norvegese, affine per certi versi al noto romantico tedesco Caspar David Friedrich, e cioè Lars Hertervig, recentemente tornato in auge anche grazie alla mirabile opera dello scrittore Jon Fosse, Premio Nobel per la Letteratura 2023, che lo fa muovere tra le pagine di uno dei suoi capolavori del 2009 dal titolo appunto “Melancholia I – II”. Nel libro, in una lunga narrazione interiore, il giovane pittore Lars, figlio di poverissimi contadini e nato sull’isola di Borgoya, che ritrarrà sfumata e affascinante in numerosi suoi quadri, trascorre la sua giovinezza tra la vita presso l’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf e l’amore per la bellissima Helen, figlia della sua affittacamere in quella città. Perdente però in entrambi gli ambiti, ritorna in patria dove indefessamente continua a dipingere la sua terra di fiordi, cascate, visioni nebbiose e marine notturne, scenari diurni tra alberi spettrali e squarci di luce. Perdendo via via però la ragione, fino al ricovero in ospedale psichiatrico, entra sempre più in una dimensione di isolamento e povertà estrema, non trovando riconoscimento per le sue meravigliose tele che solo dopo la morte verranno apprezzate fino a farne il maggior esponente della pittura romantica del suo paese. Nel libro di Fosse questa sua vicenda biografica viene incredibilmente raccontata anche attraverso l’incontro postumo con un giovane scrittore di fine ‘900 che ne vede i quadri, innamorandosene. I flussi di logorroici dialoghi interni diventano così spesso flash di visioni e di luce, quella luce che il più delle volte forma un impasto cromatico, che solo sembra dare sollievo ad una disperata solitudine di rimuginìo senza fine e pare di condurre alla follia. In tal modo la pittura di Lars Hertervig ci appare sospesa nella minuziosa descrizione paesaggistica dell’incanto di paesaggi nordici estremi, dove il cupo e il brillante convivono insieme spesso stratificati e richiamano appunto quel sublime e quella nostalgia distruttrice della Sehnsucht a cui prima si accennava. Il tutto ci conduce pertanto ad intendere come l’instabilità psichica divenga qui un’ossessione tra realismo e surrealismo, lasciandoci aperta una domanda: quella natura meravigliosa che Lars descrive l’ha vista davvero o l’ha sognata in una sua allucinazione? Rimangono in ogni caso i doni immensi della sua stupenda immaginazione pittorica che ricorda le parole di Leonard Cohen: “Se hai un dolore di cui non riesci a liberarti, fanne un’offerta creativa.”