Il tema del dono è sempre presente nella poesia di Alda Merini e, per quanto la si legga, non finisce mai di regalarci scenari imprevisti e lampi di luce, rivelazioni aperte o rapide sbirciate su mondi interiori che, forse, da soli, mai avremmo visitato. Sì, perché Alda fa così, e personalmente penso che mai abbia scritto per piacere o per sedurre il suo lettore, ma solo appunto per fare un dono e, ancor di più, per riceverlo.
C’è una sete infinita in lei, una sete che ritorna e a volte stordisce chi le si avvicina, ed è sete di contatto, e per dirla “gestalticamente”, di contatto pieno. Alda brama incontrarsi non solo con chi la legge, ma con ogni aspetto dell’ambiente che le sta attorno, dalle presenze umane a quelle soprannaturali che siano (si pensi ad esempio al suo rapporto poetico con gli angeli).
E il termine “dono” diventa anche una parola chiave ricorrente nei suoi scritti, quasi lei si vedesse o si relegasse come prima istanza naturale nel ruolo di chi chiede, di chi prega, di chi spera dall’altro. Sempre figlia e sorella, e forse anche madre, delle sue travagliate vicende biografiche ben note, mentre queste la rendono unica come poetessa e come donna, ci appare anche come colei che continuamente partorisce e viene partorita dallo spessore e della densità grumosa dei suoi vissuti interiori ed esteriori così difficili. Lei stessa infatti, in una nota poesia si definisce “fanciulla piena di poesia e coperta di lacrime salate”, e continuamente genera richieste d’amore, di visite d’amore, e a sua volta promette i propri doni più grandi: “Ti faccio dono di tutto / se vuoi, […] / io voglio solo addormentarmi / sulla ripa del cielo stellato / e diventare un dolce vento / di canti d’amore per te”. In ogni caso è davvero difficile, nonostante i termini così delicati, cogliere un facile romanticismo in queste parole, in quanto sullo sfondo rimane sempre il suo travaglio onnipresente, il suo dolore incompiuto, il suo dirsi che cerca sfogo e spesso esce come un groviglio nucleare, capace però spesso di sciogliersi e stemperarsi in un volo. E così, nonostante tutto, la tenera fanciulla non si può immaginare mentre si rivolge ad un uomo soltanto, ad un determinato amante appartenente a quell’ora biografica. Alda è capace di amare, e di invocare l’amante, in senso panico; questo si coglie bene nella splendida lirica, dal titolo “Il dono”, regalata alla dottoressa Paola Argentino, in estemporanea dettata al telefono dalla poetessa, mentre insieme argomentavano del convegno internazionale organizzato a Siracusa nel maggio 2001, come momento finale dei corsi di formazione sul tema del Modello Gestaltico Comunitario. Tale lirica ci sorprende come una carezza inattesa, a mio avviso, proprio per essere stata donata in occasione di un momento che le poteva ricordare il profondo travaglio legato ai suoi ricoveri in struttura psichiatrica:
Io ti chiedo la carità di un amore,
ma non di un amore soltanto,
di uno, duecento, duemila amori.
Io ti chiedo un accoppiamento,
non una copula,
ma uno smarrimento totale.
Io non ti chiedo cose di tutti i giorni,
ma che il nostro incontro
diventi un totale silenzio.
A chi parla Alda, in questa invocazione iniziale, che chiede con un’atipica tautologia “la carità di un amore”, dove si specifica cioè la richiesta di una sostanza con la sua stessa natura? Alda chiede carità di carità… Carità e amore appaiono infatti come sinonimi, e sono tali perché sfumano in un caleidoscopio di numeri indefinibili che vanno in crescendo, è insomma amore a dismisura quello che chiede Alda al suo immaginario interlocutore. Un amante, cioè, che deve essere disposto nella seconda terzina ad un atto d’amore completo, assoluto e totalizzante, perché il suo premio finale è lo “smarrimento totale”, ben oltre al fisico piacere raggiunto che traluce in filigrana. Perché quello, pare dirci, è “cose di tutti i giorni”, mentre qui viene chiesto un incontro che “diventi un totale silenzio”. Dopo la pienezza del contatto d’amore, ci si può infatti separare per gustare il silenzio di sentire l’intensità profonda di tale incontro. E come non vedere queste parole, emerse dal contesto per cui le ha scritte, come profonda metafora dell’amore che si genera in un vero percorso di cura psichiatrica comunitaria, quando giunge il tempo della riabilitazione all’esterno, di uscire fuori, dentro al proprio silenzio, capaci di assimilare l’esperienza grande di pienezza ricevuta? Questo, potremmo azzardare rispettosamente, è quello che Alda avrebbe voluto per i suoi rientri nel mondo che seguivano i suoi dolorosissimi ricoveri? Eppure tutto rimane dono, da fare e da ricevere, perché in lei ogni moto è aspirazione di incontro, anche di se stessa. Altrove, la poetessa del dono, era stata capace di scrivere: “Vedessi il volto della mia anima / quando ti vedo e tremo / e diventa foglia d’ascolto. […] Vedessi il mio amore / che è tenero figlio / che cresce senza padre”. Quasi che l’amore, ritornello costante, non possa prescindere, per essere vitale e accogliente, dalla consapevolezza della propria fragilità. Da qui donare pienamente, da qui ricevere pienamente il dono altrui.