“Qual è il tuo sogno?” così Danilo Dolci si rivolgeva a ciascuno dei suoi alunni seduti in cerchio nella classe, applicando il suo metodo pedagogico definito “maieutica della reciprocità”.
Amava porre domande, in particolare sui sogni, per questo è stato definito come “l’educatore della domanda”, ossia l’educatore che innesta tutta la sua azione formativa sul chiedere, sull’esplorare, sull’interrogazione, non in senso scolastico, ma con l’obiettivo di scavare dentro, dell’andare oltre l’apparente, di far esprimere il “non-detto”, creando relazioni e cercando di far emergere i sogni… per sé e per l’altro da me.
“Ciascuno cresce solo se sognato”, la famosa frase della sua “poesia diversa”, è ancora oggi di forte impatto emotivo perché esprime la missione pedagogica e politica della comunità educante, rivestendo un significato profondo e quanto mai attuale in questo contesto storico, detto della post-modernità, caratterizzato dalla frammentazione delle soggettività e dalla globalizzazione socio-culturale. Dunque “ciascuno cresce solo se sognato” significa, a mio avviso, riconoscere ad ognuno il proprio potenziale di crescita a partire da un humus fertile relazionale affettivo, che nell’ottica di un nuovo umanesimo – la Gestalt Therapy, con cui ho riletto questi versi – significa far emergere la “figura” dallo “sfondo”, far diventare protagonisti della loro vita i nostri figli, i nostri alunni, i nostri pazienti, tutti coloro di cui ci prendiamo cura nella loro crescita, che diventa poi la crescita di tutti.
Si tratta di un desiderio generativo che è sostegno affettivo ai sogni che non appartengono a me, ma all’altro da me, che nascono in una relazione empatica con funzione genitoriale, nel confronto tra i due genitori. È il nuovo costrutto del coparenting che permette ai genitori di creare un’alleanza amorevole e di coordinarsi nell’essere “genitori insieme” o “genitore con” nella condivisione di responsabilità, prima ancora della nascita, a partire dal concepimento.
Una tribù africana è famosa proprio per l’usanza di ogni madre di sognare il proprio bambino prima del concepimento, creando un canto per lui che lo accompagnerà per tutta la sua vita, condividendo questo canto prima nella co-genitorialità (con il partner) e poi nella tribù di appartenenza.
«C’è una tribù in Africa, dove la data di nascita di un figlio non viene conteggiato da quando nasce, né da quando è concepito, ma dal giorno in cui il bambino era un pensiero nella mente di sua madre. E quando una donna decide che avrà un bambino, va fuori e si siede sotto un albero, da sola, e ascolta fino a quando può sentire il canto del bambino che vuole venire. E dopo aver sentito la canzone di questo bambino, lei torna da colui che sarà il padre del bambino, e la insegna a lui. E poi, quando fanno l’amore per concepire fisicamente il bambino, per un po’ di tempo cantano la canzone del bambino, come un modo per invitarlo. E quando la madre sarà incinta, insegnerà la canzone del bambino alle levatrici e alle vecchie donne del villaggio, in modo che quando il bambino è nato, le persone intorno a lei cantino la canzone del bambino per accoglierlo. E poi, quando il bambino cresce, agli altri abitanti del villaggio viene insegnata la canzone del bambino. Se il bambino cade, o si fa male al ginocchio, qualcuno lo raccoglie e gli canta il suo canto. O se il bambino fa qualcosa di meraviglioso, o partecipa ai riti della pubertà, allora come un modo per onorare questa persona, la gente del villaggio canta la sua canzone. Nella tribù africana c’è un’altra occasione su cui gli abitanti del villaggio cantano al bambino. Se in qualsiasi momento durante la sua vita, la persona commette un crimine o un atto sociale aberrante, l’individuo è chiamato al centro del paese e le persone della comunità formano un cerchio intorno a lui o lei e poi gli cantano la sua canzone. La tribù riconosce che la correzione per un comportamento antisociale non è la punizione, ma è l’amore e il ricordo della propria identità. Quando si riconosce la propria canzone, sparisce la voglia o il bisogno di fare cose che possano ferire un altro. E va così la loro vita fino al letto di morte attorno a cui tutti gli abitanti del villaggio cantano, per l’ultima volta, il canto a quella persona».
(Brano tratto dal libro Healing voice di Krisztina Nemeth).
Paola Argentino