Medea maga. La hyletica come chiave interpretativa della magia
Stupisce che, nonostante la sua barbarie, Medea abbia acquistato fama presso gli abitanti di Corinto per la sua capacità di guaritrice, per la capacità di manipolare non solo sostanze benefiche ma anche malefiche fino al punto di uccidere con il peplo avvelenato la nuova sposa di Giasone. E’ proprio quest’ultimo il quale, per farle riconoscere che anch’egli ha dato qualche beneficio a Medea conducendola in Grecia, rileva che “ …la tua sapienza è famosa in tutta l’Ellade”; ma di quale sapienza si tratta? Non della capacità critica e logica di cui i Greci, almeno alcuni di loro, sembrano così abili, ma di una profonda consonanza con la natura tale da saper cogliere dalla realtà fisica tutti gli stimoli necessari per reagire su di essa e stabilire nuovi equilibri.
E’ proprio la Christa Wolf che dà un contenuto a questa sapienza, tuttavia è solo un’indagine fenomenologica condotta fino in fondo che ci fa capire quali meccanismi consentono all’essere umano di stabilire il contatto con la realtà.
La fenomenologia classica, la descrizione essenziale proposta da Husserl, e sulla sua scia da Edith Stein, consente di spostare l’attenzione sul soggetto umano e quindi di indagare la sfera degli atti che noi registriamo come atti vissuti attraverso i quali si costituisce il mondo per noi, ad esempio la percezione, il ricordo, l’immaginazione, la valutazione, il giudizio e così via. Tali atti sono il filtro attraverso il quale il mondo esterno e quello interno passano in quanto ne abbiamo coscienza. L’articolazione degli atti vissuti è molto complessa e non è questo il luogo per affrontarne l’analisi, ma si può sottolineare l’importanza dell’evidenziazione della sfera dei vissuti perché attraverso essi passa anche la consapevolezza del nostro corpo, della nostra psiche, del nostro spirito; quindi si coglie con evidenza il rimando ad una realtà sensibile corporea, ad una realtà psichica: reattiva, impulsiva e ad una spirituale: volontaria, intellettiva, valutativa. Tutto ciò ci consente di comprendere come è costituito l’essere umano e di analizzare la radice di tutte le sue espressioni e prese di posizione.
Ogni atto da noi vissuto ha una componente hyletica o materiale e una noetica o intenzionale, la prima è da intendersi come “materia” ma non nel senso puramente fisico di cui parla la scienza, ma nel senso di una manifestazione che, data, ad esempio, attraverso le sensazioni, è accolta, intesa e valutata ed è in questa comprensione-valutazione che consiste l’aspetto noetico (5). Nel dosaggio fra “manifestazione hyletica” e “valutazione noetica” si giocano le differenze culturali sia in senso diacronico – ad esempio le differenze fra le culture arcaiche e quelle storiche – sia in senso sincronico fra la cultura occidentale e le altre culture. Ciò significa che le differenze culturali, per essere veramente comprese, devono essere ricondotte alla dimensione dei vissuti soggettivi e collettivi; analizzandoli si costata che una straordinaria continuità in senso diacronico in quanto gli atti vissuti dagli esseri umani sono gli stessi dal punto di vista strutturale, le variazioni che sono alla base delle differenze culturali riguardano i loro contenuti e le loro combinazioni. Quando si parla di una cultura comune ad un gruppo ciò accade perché le modalità del rapporto manifestazione-valutazione sono vissute sia strutturalmente sia relativamente ai contenuti in comunanza; al contrario in diverse culture, pur permanendo l’aspetto strutturale, che consente di affermare che siamo tutti esseri umani, le variazioni sono attribuibili a contenuti e combinazioni diverse degli atti vissuti (6).
E’opportuno a questo punto esemplificare le indicazioni sopra riportate che sono il risultato di analisi molto sottili ed espresse in termini tecnici nella ricerca filosofico-fenomenologica, ma che, al di là della complessità teorica e della specificità terminologica, consentono l’evidenziazione dei nostri modi di vita. E volendo stabilire un nesso fra tale chiave interpretativa e l’argomento oggetto della presente trattazione, si può osservare che proprio le difficoltà dell’elaborazione teorica permettono di comprendere la differenza fra i Greci e Colchi. I primi sono quelli che ci hanno insegnato ad analizzare criticamente, a scavare per capire – momento culminante di questo processo è, appunto, l’Atene dell’età dei Sofisti – , gli “altri” spesso sono vissuti o vivono ancora senza il tarlo della criticità spinta all’estreme conseguenze; i primi hanno sviluppato, utilizzato proprio il momento noetico potenzialmente presente in tutti gli esseri umani, ma qui particolarmente esercitato. Ciò è intuito sia da Euripide quando coglie la differenza fra la razionalità greca e la barbarie dei Colchi, sia dalla Wolf quando vuole rovesciare la presunzione di superiorità dei Greci e fa dire a Medea rivolta a Leuco “Tu rendi le sensazioni prigioniere delle tue idee. Lasciale libere e basta” (7).
In realtà non si tratta di liberare le sensazioni, ma di vedere il valore di tutta quella sfera psichico- corporea che costituisce di per sé una “materia” per la valutazione, con un possibile doppio esito: il momento intellettuale-valutativo può chiudersi orgogliosamente in se stesso respingendola e sottovalutandola oppure può accoglierla fino al punto da essere trascinato da essa. In ogni caso quella sfera e quella dimensione che chiamiamo hyletica è sempre presente nel nostro processo vitale: l’attrazione o la repulsione dei colori, dei suoni, delle immagini potenti, il miscuglio di sensazioni fisiche e di “sentimenti sensoriali”: il bianco ci attrae perché ci dà pace, il nero ci inquieta, ma forse è questa la ragione per cui spesso lo scegliamo; e ancora, il bianco e il nero sono segno vita e di morte? Per alcune culture sì, per altre non è così. Se il bianco è quello delle ossa scarnificate del cadavere lasciato alle intemperie o agli animali, allora, la morte si mostra come qualcosa di bianco. E tutto questo ha costituito il primo nucleo di una valutazione sacrale, il riconoscimento di una “potenza” della cosa che affascina o atterrisce, perché l’essere umano ha sempre colto in sé la presenza di un’Ulteriorità che afferra e consola oppure minaccia e distrugge. Può non volerla vedere, ma quella è sempre presente. Hyletica e sacralità nelle culture arcaiche sono legate e lo sono anche in molte religioni storiche, come si evince chiaramente dalla religiosità popolare perché si crede che la Potenza di cui l’essere umano oscuramente sente la presenza sia espressa e realizzata in qualche cosa di eccezionale che colpisce i sensi e l’immaginazione e che, pertanto, è ritenuta sacra in quanto potente.
Per le ragioni che sono state indicate nella Medea di C. Wolf si intravede un’indicazione che conduce alla sfera hyletica, ma essendo ella figlia della cultura occidentale e del suo razionalismo vuole eliminare ogni relazione con la dimensione del sacro. Esaminiamo questi due aspetti.
In primo luogo particolarmente significativo è il tentativo di cura della figlia del re di Corinto Glauce, affetta dall’epilessia attuato da Medea. Ella la cura a livello fisico e psichico, convinta della continuità dei due momenti: la cura con pozioni e massaggi che rilassando le membra inducono uno stato di calma il quale, a sua volta, consente di entrare nella profondità della psiche e di attuare una sorta di psicoanalisi. La Wolf proietta un metodo di cura contemporaneo in una cultura arcaica considerando, forse, tale terapia, la psicoanalisi, appunto, come una riscoperta all’interno della cultura occidentale di una modalità terapeutica alternativa a quelle elaborate sulla base di una visione scientista, funzionalista, positivista della medicina e aggiungendo anche un’interessante circolarità fra corpo e psiche, prevalentemente abbandonata nella nostra cultura che a fatica ha riconquistato la psiche, ma la tratta come una dimensione a se stante.
- Wolf, tuttavia, dimentica che nelle culture arcaiche la terapia è accompagnata sempre da una visione sacrale della realtà, mentre Medea, a suo avviso, può essere considerata come un prototipo di emancipazione proprio perché ha “perso” la fede da quando ha visto compiere il rito sacrificale dell’uccisione del fratello da parte delle vecchie donne della Colchide. Ella si è resa conto in quel frangente che i riti arcaici sono disgustosi; ma, potremmo aggiungere, non è stata capace di separare il momento religioso autentico dalla ferocia di riti tribali. L’ateismo è per Christa Wolf una conquista e chi è “moderno” non può essere religioso, ma in tal modo perde la peculiarità della visione del mondo arcaica. La intravede, ma non riesce a penetrarla interamente.
Come si può notare ci sono profonde oscillazioni nella posizione della Wolf. La sua critica alla ragione strumentale di tipo illuminista e positivista non si accompagna ad una rivalutazione globale del passato. Lo spazio dato alla sensazione e all’immaginazione rimane ancora sul piano astratto del logos occidentale dal quale in ultima istanza non sa liberarsi. Euripide ne propone le fondamenta, la Wolf ne coglie l’insufficienza, riandando, però, ad un’arcaicità interpretata non nella sua autenticità, ma dipinta sulla base di un vagheggiato ritorno al passato.
Un aspetto, anche se non sviluppato, rimane autentico: l’attrazione hyletica delle pozioni e l’efficacia manipolatrice dei massaggi. Ma per quanto riguarda le pozioni qui si sottolinea solo del loro aspetto benefico; la Wolf respinge l’idea di una magia nera, accettando solo quella di una magia “bianca”, in altri termini rifiutando il sacro rifiuta anche il male. L’utopia marxiana secondo la quale la società futura sarà tutta positiva e il male annullato riemerge nella considerazione emblematica della figura di Medea.
Al contrario interessanti suggerimenti a proposito dei filtri di Medea vengono da un’altra fonte, quella relativa all’opera tragica di Seneca dalla quale non ci aspetteremmo un simile contributo data la posizione filosofica dell’autore; chi più di lui sembra essere il sostenitore del logos occidentale? Infatti egli ritiene che il Logos tutto regga; regge il corso degli astri, l’alternarsi delle stagioni, le vicende umane e proprio l’essere umano deve uniformarsi ad esso per far prevalere la ratio contro le passioni; per tale ragione la figura di Medea è tragica, perché tutta la vicenda che la riguarda è tale: nefas è stata l’operazione degli Argonauti, come nefas è l’azione di Medea. Ma chi è questa Medea che come maga si contrappone al logos?
Il momento hyletico è ben descritto attraverso le parole della nutrice nell’approssimarsi dell’epilogo, quando Medea sta preparando il veleno che ucciderà la rivale. La nutrice racconta di averla udita dire: “Piccoli sono questi mali e vale poco l’arma generata dal cuore della terra: chiederò veleni al cielo. E’ tempo ormai di compiere qualcosa di più grande dei volgari malefici. Scenda il dragone che si snoda come un vasto fiume e allaccia nelle immense spire le due Orse (quella buona ai Pelasgi, questa ai Fenici), allenti finalmente il Serpentario la stretta delle mani e faccia piovere il veleno” (8). Ciò che è mostruoso e potente, benefico o malefico che sia, riempie quella apertura profonda dell’essere umano verso il mistero e si configura in mostri creati dall’immaginazione la quale lavora su ciò che impressiona a livello percettivo – tra gli animali sono scelti i serpenti che hanno nelle diverse culture significato positivo o negativo–; esso è manifestazione della sacralità nel suo doppio versante di salvezza e distruzione. E’ il numinoso e il tremendum di cui ci parla Rudolf Otto nel suo Il sacro, che si configura attraverso momenti colti nella natura che ci colpiscono per la loro eccezionalità e irraggiungibilità – ad esempio le due Orse, lontani agglomerati di stelle – e che quindi sono ritenuti divini perché ci fanno reagire interiormente suscitando “sentimenti sensoriali” come la paura e il senso della nostra finitezza e ad essi attribuiamo la totalità e la potenza che oscuramente sentiamo vivere dentro di noi e che non abbiamo potuto produrre da noi stessi, ma che ci proviene da Altro. La dimensione hyletica è, dunque, il medium di attribuzione e realizzazione del sacro soprattutto nelle culture arcaiche.
La preparazione del veleno che ci è descritta da Seneca è particolarmente interessante in quanto disvelatrice della potenza presente nei prodotti della natura: “…ogni prodotto che la terra genera in primavera, al tempo dei nidi, o quando il rigido inverno ha disperso lo sfarzo dei boschi stringendo tutto in una morsa di ghiaccio; qualunque stelo sboccia in un fiore mortale, o cela nell’intrico delle radici un succo nocivo, lo tocca la sua mano. (…) Sminuzza le erbe micidiali, spreme la bava velenosa dei serpenti, vi mescola uccelli sinistri, il cuore di un tetro gufo, le viscere di stridula strige sventrata viva” (9). Gli aggettivi usati in questo brano sono significativi perché esprimono la modalità dei corrispettivi sentimenti sensoriali: il rigido inverno è captato dalla sensibilità del corpo, lo sfarzo dei boschi è colto attraverso la vista, il tetro gufo è tale alla vista e all’udito, ancora la stridula strige ferisce l’udito, a queste sensazioni si associano le reazioni, i sentimenti sensoriali, di disagio, inquietudine, spavento. Qui si manifesta la potenza negativa del Sacro.
Christa Wolf sottolinea solo la potenza positiva della cura affidata ad elementi naturali, si potrebbe affermare che esprime ciò che il movimento della new age teorizza.