Esiste nella storia dell’umanità una dinamica maschera/volto estremamente particolare, psicologicamente intrigante, ove la maschera non nasconde il volto, ma lo mostra nelle sue fattezze fisiche e per di più lo conserva ed impreziosisce, non solo per il materiale con cui viene ad essere realizzata, ma soprattutto per la finalità che sottostà all’oggetto, rendendolo imperituro. Mi riferisco alle maschere funebri che conservano nel calco del volto del defunto i lineamenti fisici e nell’espressione artistica la caratteristica personale prevalente che si desidera ricordare.
Tra le più celebri storicamente ho riportato in questo mio articolo le immagini della maschera egizia di Tutankhamon (rinvenuta nella Valle dei Re nel 1922), il faraone-bambino, in oro massiccio, decorata con pietre preziose, e la maschera greca attribuita erroneamente al re Agamennone (scoperta a Micene nel 1876), in lamina d’oro dall’espressione eroica.
Per gli antichi Egiziani lo sfondo culturale per cui realizzavano queste maschere facciali era profondamente religioso, infatti, per la loro fede nell’Oltretomba era necessario conservare il corpo umano, ed in particolare la testa, mummificando il corpo e modellando i tratti del volto il più possibile somiglianti alla persona deceduta. La convinzione del tempo era quella che la maschera aiutasse il riconoscimento dello spirito del morto nell’aldilà, garantendone anche protezione e rafforzandone il valore della persona.
Anche nella cultura greca antica la maschera che copriva il volto dei morti serviva per tramandarne il passaggio ad altra vita con significato evocativo positivo dei comportamenti eroici. All’opposto nella cultura africana tradizionale le maschere funebri venivano forgiate con volti minacciosi e orrendi, perché avevano la funzione di allontanare i demoni ostili, spaventandoli in modo da non farli avvicinare all’anima dei defunti.
Nel periodo successivo all’epoca greca, nel basso Impero Romano e soprattutto nel Medio Evo, le maschere funebri non erano più seppellite con il corpo, ma divenivano la riproduzione fedele del volto dei morti, come ricordo per i vivi, realizzati con calchi di gesso o cera posti sul viso del soggetto defunto e poi dipinti. Chiaramente solo nobili e personaggi di spicco nel modo della cultura, dell’arte, della politica ecc…potevano permettersele. Grazie a queste maschere mortuarie conosciamo con precisione i volti di personalità illustri quali: Dante Alighieri, Giacomo Leopardi, Pascal, Newton, Voltarie, Robespierre, Napoleone Bonaparte, ecc…
Conservare l’immagine tridimensionale del volto del defunto con un calco post-mortem sembrerebbe un rituale quasi macabro, ma è stato fondamentale per realizzare sculture in marmo o bronzo poste nei monumenti cimiteriali o esposti nelle loro abitazioni o in luoghi pubblici. Poi visto che i cadaveri si decomponevano presto e si perdevano le fattezze originarie, si pensò di fare questi calchi in vita e di migliorarli artisticamente, più che essere fedeli riproduttori.
In fondo è assimilabile alla metodica delle fotografie ‘ritoccate’, o ancora più recentemente, delle foto digitali tridimensionali proiettate nei monitor di computer posti nei cimiteri più tecnologici.
Nella mia ultratrentennale esperienza clinica sull’elaborazione del lutto mi sono ritrovata ad accompagnare i familiari nel momento sella separazione ultima e, a volte, anche dopo nella scelta della fotografia da mettere nella bara, nel rito religioso del funerale del proprio caro e nel cimitero.
Quello che accade e che la ricerca della foto non vuole essere per la maggior parte quella attuale, più formale, ma quella legata ad una esperienza significativa della vita relazionale dei familiari, che rimanda ad un vissuto affettivo. Ad esempio, la foto del matrimonio, della laurea, di un viaggio ecc…
Paradossalmente la funzione della maschera funeraria, così come le sculture monumentali cimiteriali e le fotoceramiche delle lapidi, ri-creano il volto del defunto, non tanto con l’intento di accompagnarlo nell’aldilà, bensì per rimanere nella memoria dei viventi, per elaborare il lutto nel qui ed ora della separazione definitiva, e così divenire – a mio avviso – “volto imperituro”.
Paola Argentino
Direttrice Istituto di Neuroscienze e Gestalt Therapy “Nino Trapani”
e Condirettore Master e Docente Università Cattolica Sacro Cuore