Il tema dello specchio, nella storia del pensiero occidentale, è un tòpos letterario e artistico in generale, eppure quando al concetto dell’immagine riflessa si aggiunge l’intento dell’autoritratto emerge un soggetto che dice molto sul senso del volto, e di un volto specchiato che può divenire maschera di sé eternamente fissata da proporre agli sguardi altrui.
Sì, perché uno specchio non solo ridona l’immagine per il tempo desiderato da chi si riflette, ma anche incornicia e delimita lo sfondo dietro al volto stesso. Nasce così, probabilmente anche tra questi pensieri, il più famoso autoritratto di Escher, celeberrimo e straordinario artista olandese, forse tanto famoso proprio per la sua unicità stilistica e iconografica. Impossibile da inserire in una particolare corrente pittorica, fu infatti artista eclettico e particolare, amato dai matematici e perfino dai Rollingstones, scoperto tardi dai vari critici d’arte.
La sua lunga vita, che si è snodata tra il diciannovesimo e gran parte del ventesimo secolo, ha visto una personalità per nulla isolata, anche se lontana dalle correnti artistiche più famose, nella sua attività di grafico ed incisore che ha ricercato strenuamente e direi, poeticamente, i segreti della realtà, passando dall’astrattismo delle forme all’osservazione più fine della natura, attento soprattutto al tema del tridimensionale e della varietà del punto di vista, a volte quasi fino all’ossessione, creando mondi trasfigurati e spesso paralleli tra loro. Anche nell’autoritrarsi dunque, Escher non ignora il tema della molteplcità del punto di osservazione; sceglie infatti di rappresentare la propria immagine entro una sfera in cui si riflette. Data la superficie convessa di questo corpo geometrico, viene dunque a crearsi un’immagine che, includendo lo studio dell’artista come sfondo, diventa una sorta di vorticosa fuga centripeta degli oggetti d’arredo di tale ambiente: libreria, sgabelli, soffitto, lampadario… tutto viene attratto, come risucchiato dal centro di questa sorta di voragine che è lo stesso volto dell’autore. Escher stesso di questo suo autoritratto affermava, in terza persona, che “la testa dell’artista, o più precisamente il punto situato tra i suoi occhi, si trova al centro del riflesso. In qualunque modo ci si muova, sempre sarà al centro. Il suo io è, in maniera inesorabile, il nucleo del suo mondo”.
Frase importante, quasi inquietante, che non può non richiamare un’eco biografica forse di un deficit di autostima alimentato da un’educazione purtroppo molto squalificante nei confronti di un Escher prima bambino, poi ragazzo e infine giovane artista a bottega presso un maestro autorevole. Dovette infatti ripetere un anno della scuola elementare per ben due volte e solo il disegno sembrava interessarlo come materia, riuscendo a diventare abile incisore fin da adolescente, ma anche in questa pratica non incoraggiato e valorizzato nella sua straordinaria attitudine e vocazione artistica, sempre misconosciuta anche durante i vari esami d’arte, che avevano il più delle volte un esito negativo, nonostante le sue doti straordinarie. Nonostante questo riuscì a procedere e decise ugualmente di iscriversi alla Scuola di Architettura e Arti Decorative di Haarlem, dove apprese i rudimenti dell’intaglio, per poi passare nell’atelier del grande Samuel Jessurun de Mesquita, col quale iniziò a lavorare alle xilografie, acquisendo notevole abilità. Eppure nonostante questo, da un successivo autorevole giudizio collegiale, emerse nuovamente una pesante squalifica nei suoi confronti: «Escher è troppo ostinato, troppo filosofico-letterario: al ragazzo mancano vivacità e originalità, è troppo poco artista». Questo però non impedì all’artista di continuare la sua carriera e pian piano affermarsi grazie l’originalità indiscussa della sua arte, astratta e trasfigurata. Eppure quella squalifica continua e perpetrata nel tempo in cui il giovane Escher avrebbe avuto bisogno, come ogni ragazzo, di rassicurazioni e conferme sul proprio originale valore, è a mio avviso presente come volontà di estrema affermazione del proprio io nella rappresentazione del suo autoritratto, il quale, come dicevamo, diviene quasi una maschera sferica fissata su un piedistallo umano (la sua stessa mano). Sfera contenente volto e studio, sua emanazione artistica, quale figura quasi ossessiva che egli riproponeva nelle sue opere come summa di perfezione geometrica, dove ogni punto era tridimensionalmente e ugualmente distante dal centro. Sfera, inoltre, come lente che rifletteva il suo volto per includerlo in quel cerchio di perfezione a cui tanto aveva aspirato durante tutta la sua formazione e ricerca artistica successiva. Un volto, quindi, relegato in una fissa dimensione perfetta, poco credibile per la realistica mutevolezza della condizione umana, per questo divenuto maschera di una fissità che non si era potuta sciogliere crescendo confermato nel proprio valore unico e particolare, come quello di ogni persona.
Chiara Gatti
Counsellor professionista in formazione
Istituto di Neuroscienze e Gestalt Therapy
“Nino Trapani”