Il noto attore teatrale, mimo e pedagogista francese, fondatore della Scuola Internazionale di Teatro di Parigi, Jacques Lecoq, famoso per i suoi studi sul teatro fisico e per il recupero della maschera e del coro greco ha definito il naso rosso a palla di clown ”la più piccola maschera del teatro che si possa indossare, anzi la maschera più piccola del mondo”.
Pierre Byland, che di Lecoq è stato allievo, ha portato il naso rosso nel teatro di oggi e lo ha reso popolare con i suoi spettacoli descrivendolo come il modo più semplice per evitare un trucco complicato che richiederebbe ore, capace da solo di cambiare una fisionomia e predisporre il pubblico al sorriso, un modo simbolico per sentirsi liberi e per questo terapeutico”.
È l’unica maschera che non copre il viso dell’attore, ma lo svela; l’unica sotto la quale l’attore non deve irradiare un personaggio da esibire al pubblico, ma spogliarsi dell’ armatura e mostrarsi nudo.
È rosso perché è il colore che richiama lo sguardo, anche inconsapevolmente, perché gli occhi seguono il rosso: si pensi alle lunghe e pesanti alabarde del kung-fu alle quali viene appeso, vicino alla punta, un fiocco pendente rosso, per distrarre l’avversario che lo guarda nel suo movimento e non ne vede più la punta che lo sta per trafiggere.
Il clown che lo indossa potrebbe quasi esclusivamente giocare con il pubblico che lo guarda e così avrebbe origine il suo racconto.
Il naso poi è rotondo perché richiama una forma semplice, come la persona che troviamo sotto, dentro, dietro.. ma è anche la forma dei pianeti e delle stelle, dei mondi possibili. Potrebbero esserci milioni di motivi perché il naso sia rotondo, uno tra i tanti è che, quando lo si indossa, la curva del naso che intravvediamo ci ricorda un orizzonte altro.
Il naso rosso indossato da un clown rimanda alla possibilità di mettere la maschera, strumento indispensabile per abbattere le barriere, ridurre le distanze, rendersi simpatici e affidabili, accostarsi agli altri con delicatezza e rispetto, “in punta di piedi”.
Il naso rosso richiama però alla mente anche l’azione di togliere la maschera, perché essere clown chiede di essere veri e autentici, predispone all’ascolto, all’ accoglienza.
E’ una maschera che svela e apre ai nostri occhi cose altrimenti nascoste. Proprio perché può rendere più veri, il naso rosso è come un paio di occhiali speciali: attraverso di essi vediamo il mondo che possiamo colorare attorno a noi.
Non sappiamo come nacque il clown, chi fu il primo. Alcuni testi ci dicono che sia nato dal circo quando gli acrobati erano troppo vecchi per le acrobazie, altri che alcuni divieti nei teatri abbiano portato i comici al circo; in entrambi i casi ciò che accomuna il vecchio acrobata e il comico con divieto di commedia è che entrambi hanno trasformato un’avversità in una nuova possibilità.
Così nasce il clown: il clown è colui che cade, ma che si rialza ogni volta.
È significativo che Byland, in una recente intervista apparsa sulla Stampa, alla domanda quale fosse la lezione che ha imparato da Lecoq abbia risposto ”… la disponibilità, la prontezza al gioco e all’ascolto che passa attraverso il fallimento, la pedagogia del fiasco: il momento in cui l’attore clown prova con tutto se stesso a fare qualcosa, ma per qualche ragione che sfugge al suo controllo, sbaglia e, invece di nascondere l’errore, condivide quel momento di shock con il pubblico, per poi ritentare e ritentare ancora..nel fiasco dunque, la fragilità diviene la base di tutto, il motore per inventare”.
Per questo il clown “nasce e prende forma solo partendo da un tutto, personale stato di presenza, uno stato di totale apertura e ricettività”.
Come la Maschera Neutra il clown poi richiede di “prendere contatto” con una dimensione primordiale di relazione con lo spazio che ci circonda; a differenza dello stato di Maschera Neutra però il clown porta con sé tutte le caratteristiche personali dell’attore.
Invece di cercare di liberarsene, queste vengono amplificate con l’effetto che il sentire e il reagire comunicano direttamente senza passare per il razionale, a volte diventano la stessa cosa.
“E’ solo così che il pubblico potrà vedere con tenerezza l’essere umano, ridere dell’uomo e della donna e far pace con l’umanità e con se stesso”.
Un elemento che accomuna la storia del clown presso tutte le culture è rappresentato dal suo personaggio, apparentemente sciocco, ma in realtà depositario di una “sapienza altra”, incaricato di mettere a nudo le contraddizioni dell’umano agire, delle leggi, delle consuetudini, della parola dei potenti”. Ciò che è bello nel clown è che ha accettato la sua debolezza, contrariamente ai supereroi.
Il clown si rivela, anche nel nostro quotidiano, ogni volta che restiamo “scoperti”: per un treno perso, un imprevisto, un invito inaspettato e lo trasformiamo in un avvenimento spettacolare, buffo, tenero.
Qualcuno ha scritto che il clown “è un inno alla bellezza del mistero… perché fa pratica del coraggio che serve per reggere la prova dell’ignoto, affinando la capacità di improvvisazione”.
Nei laboratori espressivi e nei corsi di formazione sull’arte clownesca si cerca di capire e di sperimentare quali siano i meccanismi utilizzati dal clown per strappare una risata: al contrario di quanto universalmente pensato le smorfie, i capitomboli e le torte in faccia provocano uno scarso apprezzamento umoristico. E’ nel momento del fallimento in cui il clown è afflitto e imbarazzato che scatta la risata: non è il personaggio che fa ridere, ma è l’uomo, nel momento in cui viene “messo a nudo”.
Partendo dall’ assunto della persona come tensione verso un’unità, una Gestalt in cui il tutto è più della somma delle parti, l’uso della maschera come “oggetto mediatore” potrebbe sempre più rappresentare uno strumento efficace nei lavori di consapevolezza di sé, nei nostri laboratori di counselling e di crescita personale. In un’epoca in cui ogni fragilità e imperfezione sembra bandita, sempre concentrati sui risultati anziché sulle persone, la maschera agevola il contatto con parti di sé rifiutate, non riconosciute, ne facilita l’espressione, la consapevolezza, in un processo che ha come scopo la responsabilità personale, il coraggio di esser-ci (dasein).
La sfida che riguarda tutti è “divenire se stessi”, svelarsi, manifestando al mondo la propria bellezza e questo implica non solo l’aspetto conoscitivo e riflessivo del conoscere se stessi, ma anche quello intenzionale, che ha il suo fondamento nell’esperienza e nell’azione.
Daniela Fuzzi
Ins. di sostegno, pedagogista, iscritta al Master in Counselling Socio-educativo dell’Istituto di Neuroscienze e Gestalt Therapy “Nino Trapani”