“Prof… sono cose che possono tranquillamente capitare tra noi giovani”. Questa frase è tornata più volte nelle discussioni che ho avuto nelle classi dei miei studenti. Parlavamo del caso di Giulia Cecchettin, in quarte e quinte del liceo dove insegno. Un punto di osservazione interno, perciò, che mostra la percezione di sé stessa della “generazione Z” e contemporaneamente la valutazione implicita di queste azioni, da cui trapela un dubbio: normalità o follia?
Ovvio che molto dipende da cosa si intenda con queste due parole. Normalità è un termine che può avere un senso solo come dato statistico, cioè il comportamento rilevabile della maggioranza. Che non ha, perciò, possibilità di essere utilizzato in sede di valutazione etica e di senso delle azioni. Follia, sul piano psichico, indica la condizione di distacco dalla realtà, più o meno elevato e stabile, che un individuo può vivere.
Come valutare, allora, quello che questa generazione sta vivendo? Qualche anno fa, nel mese di agosto, stavo entrando all’”iper”. Non ero sicuro di averlo intravisto bene e di scatto sono tornato con lo sguardo a cercarlo. Incredibilmente lui! Un mio studente diplomato tre mesi prima nella mia scuola con un buon voto, come tecnico grafico pubblicitario. Se ne stava lì nell’angolo dell’ingresso seduto per terra con tutto l’armamentario tipico del “punkkabbestia”, cane compreso. Il suo socio allungava la mano per chiedere qualche spicciolo. E lui scherzava con l’ammasso di pulci. “Sto qui per qualche mese a godermi lo spettacolo, prof!”. Se ne era uscito con una frase che era un programma. “Poi comunque penso che lavorerò da un mio amico che fa tatoo, ma per ora mi rilasso!” Mi rilasso!??
E ancora, sempre all’iper. Entro e attendo una persona che mi deve raggiungere, nella hall vedo sei ragazzi seduti per terra. Stavano “armeggiando” tutti e sei coi propri telefonini, senza nessuna comunicazione tra di loro. Ad un certo punto, una di loro si è alzata di scatto, e con rabbia ha urlato ad uno degli altri: “Sei uno stronzo!”. Poi è uscita quasi di corsa dall’iper. Una sua amica, si è alzata e ha detto verso lo stesso ragazzo: “Potevi fare a meno di scriverlo!” proseguendo a rincorrere l’amica. Mi si è accesa la lampadina: pur essendo in presenza fisica stavano chattando tra loro.
Solo alcuni esempi di atteggiamenti “quotidiani”, meno visibili delle situazioni estreme che ben conosciamo: disturbi alimentari, dipendenze, ritiri sociali, attacchi di panico, autolesionismo, violenze, esperienze estreme. Ma proprio perché quotidiani, perciò più “possibili”, forse ci dichiarano che queste “stranezze” sono molto più diffuse di quanto creda chi non frequenta questa generazione.
Sono atteggiamenti di follia? Tecnicamente no. Ma, come il giudizio iniziale sul caso di Giulia Cecchettin suggerisce, per lo meno c’è un’alterazione della percezione della realtà, che sembra non essere così raro in questa generazione. Forse è una strana forma di accesso alla realtà metà strada tra una “normalità” ipotizzata e una “follia” desiderata.
Si può cercare di rintracciare dei caratteri e delle cause che ne spieghino la presenza sempre più massiccia in questa generazione, mettendo in rapporto questo stato di cose con il cambiamento epocale che stiamo attraversando e che ci ha portato, come società e cultura del mondo “avanzato”, a lasciare la modernità alle nostre spalle e ad inoltrarci in una forma del vivere che ancora non conosciamo bene e che, per ora, chiamiamo post modernità. In questo attraversamento di una soglia esistenziale i giovani stanno cercando di trovare un equilibrio che sia possibile, perché di sicuro, i modi con cui si diventava adulti 40 anni fa, oggi non sono più percorribili da loro.
Ad esempio oggi, la generazione Z fatica moltissimo a mettere in asse tra loro pensieri, emozioni e istinti, e spesso lasciano l’impressione di aver rinunciato a questa operazione, accettando di vivere dentro come se mente, cuore e corpo fossero dei separati in casa. Allo stesso modo hanno una percezione del rapporto spazio – tempo del tutto propria, dove il tempo è qualcosa di reale, cioè vale solo il presente, mentre lo spazio è virtuale, cioè in ogni latitudine si può vivere la stessa forma esistenziale. E ancora, fatica moltissimo a gestire relazioni, soprattutto quando gli affetti si fanno sentire: vivono di tantissime emozioni e di pochissimi sentimenti perché questi sembrano degli illustri sconosciuti.
Forse non è una follia generazionale, ma di sicuro questo loro modo di vivere ci sollecita, come operatori che li accompagnano nella crescita, ad una attenzione maggiore, affinché queste forme esistenziali che vivono, diventino “segnali” comunicativi per noi.