C’è maschera e maschera. C’è una maschera che copre un volto per suscitare il riso e ce n’è un’altra che vuole spaventare. C’è una maschera indossata per divertimento, un’altra invece per rendersi irriconoscibili. La maschera in sé è un oggetto neutro. Il suo significato dipende dal volto che la indossa. E dunque, dietro ad ogni maschera, c’è un volto che proprio alla maschera stessa attribuisce il significato. Come a dire che la maschera, mentre copre, svela le intenzioni del volto che dietro ad essa vuole nascondersi. Ma la maschera non è solamente un oggetto. Un oggetto statico che nasconde un volto per le più diverse ragioni e nei contesti più vari. La maschera può talvolta anche assumere una dimensione dinamica, divenendo struttura narrativa tesa a coprire un volto o perché reso irriconoscibile dagli eventi oppure perché orrendo a vedersi per la sua efferatezza. Una maschera dinamica, strumentale al dispiegarsi dell’azione scenica. È questo il caso tanto delle commedie di Plauto del III sec. a.C. quanto delle tragedie di Seneca del I sec. a. C. Nel teatro di Plauto la maschera diviene equivoco-in-azione, struttura portante della commedia, condizione necessaria al divenire di un percorso che procede dal caos iniziale al cosmos finale. Un caos fondato sulla maschera, momento incipitario in cui l’ordine sociale e familiare risultano compromessi; un cosmos che finalmente, svelando i volti, rimette a posto ogni elemento sociale e familiare. È il gioco dei fraintendimenti in cui il tema della ricerca dell’identità assume un ruolo centrale. Una commedia, quella plautina, in cui si intrecciano la maschera fisica dei tipi fissi e la maschera della narrazione. L’una funzionale all’altra. La prima che ferma in uno stereotipo un personaggio della commedia e suscita l’ilarità del pubblico, l’altra che avvince per una trama intricata che procede verso lo scioglimento conclusivo. Una maschera portatrice di una visione divertita della vita in cui tutto alla fine si ricompone e trova il suo giusto senso. Stesso modello narrativo fondato sul mascheramento della realtà, ma con ben altri propositi, si evince dalle tragedie di Seneca. Il male per agire deve dissimulare sé stesso. Di più, deve mostrarsi sotto forma di bene. Per potere convincere e portare a compimento i loro piani, i personaggi negativi senecani devono apparire diversi da quello che nella realtà sono. E la tragedia, paradossalmente seguendo la medesima struttura narrativa della commedia dalla maschera iniziale al volto finale, procede dall’inganno iniziale al disvelamento finale. Solamente, e non può che essere così, la tragedia capovolge il segno del percorso. Mentre, infatti, nella commedia il dipanarsi dell’azione va verso il ristabilimento di un lieto fine, nella tragedia l’esito è la dissoluzione dell’ordine sociale e familiare. Tale processo dalla maschera al volto ha in Seneca un preciso significato ideologico. Il male prevale, l’inganno costituisce la stessa condizione d’essere del potere, la vita è governata da uno scontro tra follia e razionalità in cui a prevalere è sempre la prima. Il significato ideologico è chiaro: la prima età imperiale ha portato al sovvertimento dei valori della tradizione e tutto ormai precipita verso la catastrofe. Maschera e volto così, intesi nel loro significato narratologico, lungi dal contrapporsi a vicenda, convergono – tanto nella commedia plautina quanto nella tragedia senecana – a delineare un itinerario drammaturgico unitario che non intende restare confinato entro i confini del teatro. Un itinerario che, mentre racconta la visione della vita dell’autore, intercetta i sentimenti del pubblico e dei lettori e con essi costruisce un dialogo che va oltre la rappresentazione stessa. È il senso questo sia della metateatralità plautina che della connotazione ideologica senecana, elementi propri di un teatro che proprio all’interazione dinamica tra maschera e volto affida i suoi significati più profondi.
ANDREA SOLLENA
Didatta della Scuola di Formazione in Counselling Socio-Educativo
Istituto di Neuroscienze e Gestalt “Nino Trapani”