Tra i temi iconografici più cari che ritroviamo in Picasso, forse alcuni ci dicono maggiormente di un suo bisogno di ancoramento interiore a qualcosa o qualcuno, che potesse garantirgli quella stabilità che la complessità della sua stessa vita, artistica e non, non gli garantiva. E così uno dei più grandi geni artistici mai esistiti si lega ad un compagno, una sorta di amico immaginario, una sorta alter ego.
E lo cerca in Arlecchino, la spensierata e canzonatoria maschera bergamasca della Commedia dell’arte. Tra astuzie furbesche e semplificazioni leggere, Arlecchino sembra affascinare e proprio prestare un altro sé più leggero al tormentato artista Pablo, dal carattere invece contorto e impertinente, possessivo, perennemente insoddisfatto, capace di soggiogare molte anime a lui vicine, soprattutto quelle femminili delle tante donne che si legano a lui in relazioni spesso maledette che le portano spesso alla follia o al suicidio, dopo travagliate ed estenuanti vicende amorose.
E comunque la prima anima tormentata risulta essere proprio la sua, quella di Pablo. Come scriveva Jung alla Nota 139 del catalogo di un’esposizione di 460 opere di Picasso tenutasi dall’11 settembre al 30 ottobre 1932 nel Kunsthaus di Zurigo: «Il “dramma interiore” di Picasso si è sviluppato fino a quest’ultimo culmine della peripezia. Quanto al Picasso futuro preferisco non azzardare previsioni, perché questa avventura interiore è cosa pericolosa, che può in ogni fase condurre a un arresto o a una catastrofica esplosione degli opposti tenuti uniti per forza. […] La figura dell’Arlecchino è di una tragica ambiguità; tuttavia per l’esperto il suo costume contiene già in sé i simboli delle prossime fasi di sviluppo. Egli è l’eroe che deve passare attraverso i pericoli dell’Ade; vi potrà riuscire? A tale quesito non posso rispondere. Arlecchino ha per me qualcosa di perturbante.» Cosa fa dire a Jung che Arlecchino è per Picasso l’eroe, a lui intimo e connesso, che deve attraversare i pericoli di un’Ade, cioè degli inferi stessa della sua tormentata interiorità? Da una breve analisi di alcune sue opere, pare di intravvedere che questo personaggio , ritratto dall’artista spessissimo e per un arco di tempo molto lungo, emblematico nel suo costume già “cubista” di per sé, sia una sorta di presenza pensosa (come nei due dipinti “Arlecchino pensoso” e “I due saltimbanchi” del 1901), che vive di una composizione di pezzi elementari autonomi , i quali conferiscono una solitudine e un isolamento totale alla figura, anche quando viene accostata ad una compagna come nel secondo quadro citato. In queste tele si affacciano colori marini, malinconici e cupi, tipici della sua prima “fase blu”, che passano via via il testimone alla comparsa del colore rosa, tipico della cosiddetta successiva e più serena “fase rosa”, presente in “Due acrobati con il cane” del 1905 dove un saltimbanco vestito da Arlecchino col viso mesto riesce comunque a tener per mano un bambino che accarezza un cane, tentativo abbozzato di un realistico gesto relazionale, prima impensabile. Tensione al contatto che sembra più certa e con maggiori toni rosati anche in “Famiglia di acrobati con scimmia”, sempre del 1905, dove il padre della scena è un Arlecchino seduto vicino alla compagna che tiene in braccio un bimbo, in una sorta di classicheggiante riecheggiata sacra famiglia.
È anche nel 1917 che una festa tra arlecchini e saltimbanchi ricompare nel celebre “Parade” (sipario), dove riappaiono gli abbozzi delle scenografie e dei costumi ideati dall’artista per i Balletti russi che si esibivano in quel tempo a Parigi. Una giocosità abbozzata che riemerge anche nello stesso “Arlecchino”, sempre del 1917, meno sgomento ma sempre sognante ed etereo, decisamente bello alla maniera classica, in abiti sfarzosi e quasi rinascimentali. Ma tale naturalismo si scioglierà ben presto nel cubismo sintetico de “I tre musicanti” del 1921, dove il centrale Arlecchino che suona la chitarra è un piatto assemblaggio di forme colorate quasi fosse un ideogramma, un simbolo che richiama ad altro, non diverso dal’”Arlecchino musicista” del 1924 dove ancora compare una figura assemblata da blocchi sporchi di colore. Alcuni studi su quest’ultima tela, inoltre, tramite radiografie, hanno mostrato come fosse stata ridipinta più volte sopra una precedente natura morta, con l’esito di continuare a presentare anche alla fine elementi estranei alla stessa natura umana di questa figura in maschera.
Insomma una lunga carrellata, che certo non si esaurisce nelle opere citate, di versioni della maschera bergamasca, rivissuta e stralunata, che mostra la volontà dell’artista di entrare e uscire dal sembiante del suo alter ego, mandandolo spesso avanti ad esplorare quei recessi dell’anima che in prima persona non riesce a penetrare. E così Pablo presta ad Arlecchino, di volta in volta, nuove suggestioni artistiche conosciute, confusioni materiche oggettive (come nell’ultimo caso citato), sovrapposizioni mentali (nel periodo blu Picasso attraversava una lunga fase depressiva per la morte di un caro amico) e soprattutto la possibilità di dirsi intimamente sotto mentite spoglie, quelle appunto di una comparsa baldanzosamente ambigua, libera sebbene triste, ma sempre capace di attraversare quell’Ade di cui parlava Jung più sopra. Scivolando così sul rapporto sofferto tra un artista e la sua controfigura artistica, scopriamo quanto Picasso ne abbia fatto, più o meno consapevolmente, un vitale tema iconografico, ma possiamo pure chiederci se non capiti anche a noi, uomini comuni, di indossare di tanto in tanto una maschera od un ruolo prefissato. E se ci capita di viverlo non come un abito transitorio, ma come un vero e proprio alter ego, sdoppiato in varie copie, che molto spesso finiscono per non appartenerci più così tanto. L’invito allora è che ognuno di noi, qualora ne abbia uno, faccia pace col quel suo arlecchino interiore e se ne rivesta solo e qualora ne abbia veramente voglia e intenzione, gestendo in pienezza il proprio “carnevale”.
Chiara Gatti
Counsellor professionista in formazione
Istituto di Neuroscienze e Gestalt Therapy
“Nino Trapani”
NB. L’immagine è composta da quattro dipinti di Pablo Picasso:
Arlecchino pensoso, 1901, New York, The Metropolitan Museum of Art
Due acrobati con il cane, 1905, New York, The Metropolitan Museum of Art
I tre musicanti, 1921, New York, The Metropolitan Museum of Art
Arlecchino musicista, 1924, Washington, National Gallery of Art