Tra le disposizioni fondamentali che ispirano la pittura romantica, e non solo la pittura dell’Ottocento europeo, troviamo certamente i temi dello squilibrio, dell’eccesso e della vertigine che si affaccia su un oltre che l’artista stesso pare non dominare completamente nemmeno a livello biografico, prima ancora che artistico e professionale. Se è ben noto infatti l’interesse dei pittori di questa corrente per una ricerca spinta sull’emozionalità e sull’eccitazione dei sensi, la quale en plair air sembra trovare il massimo dell’appagamento nell’impastarsi a contatto con la natura, si scopre come l’aspirazione al sublime sia sempre più il focus pittorico che anima parecchie delle loro opere. E che cos’è il “sublime” in fondo se non quella categoria estetica, vecchia di secoli, di un’arte liminare (etimologicamente da sub limen>oltre il limite) di un animo tormentato, ancor prima che di una ricerca pittorica? La biografia spesso inquieta di questi esponenti, appunto “romanticamente” tortuosa e arrovellata nell’ascolto del proprio cuore, può così giungere alla rappresentazioni di visioni pittoriche dove si incontrano uomo e natura, e si sprigionano scenari nei quali la solitudine esistenziale dell’individuo trova un teatro idoneo a immedesimarsi pienamente e ad esprimere spesso proprio quello che non viene considerato dicibile. In quest’ottica dunque trova spazio tutto il genere di tematiche romantiche tipiche dell’area nordeuropea quali rappresentazioni notturne di ruderi, tombe illuminate dalla luna, grandi orridi risuonanti oppure impressionanti scenari paesaggistici come eruzioni vulcaniche o impetuose e incontrollabile masse d’acqua… Qui tutto concorre a generare una instabilità profonda ed una solitudine inesprimibile volutamente cercata, ma anche impossibile da evitare. E infine si è condotti, anche come osservatori, a scontrarsi contro quel limite dove si esprime pure una possibile forma di disagio mentale, di delirio o allucinazione che sfuma in una forma estetica, la quale sola sa darne ragione, sebbene non possa risolverla.
Un sublime che si fa figura pittorica perché in ascolto di due altre profonde istanze dell’animo presenti nella sensibilità romantica: lo Sehnsuch, inteso come “struggimento” e come “malattia del doloroso bramare” e la melancolia, paragonabile a vaga e indistinta tristezza, che tormenta l’uomo fino a condurlo a stati depressivi cronici. Ed è esattamente in questo interstizio di umani sentimenti, tra la sofferenza esistenziale e la patologia clinica, che si pone l’arte di un grande pittore romantico norvegese, affine per certi versi al noto romantico tedesco Caspar David Friedrich, e cioè Lars Hertervig, recentemente tornato in auge anche grazie alla mirabile opera dello scrittore Jon Fosse, Premio Nobel per la Letteratura 2023, che lo fa muovere tra le pagine di uno dei suoi capolavori del 2009 dal titolo appunto “Melancholia I – II”. Nel libro, in una lunga narrazione interiore, il giovane pittore Lars, figlio di poverissimi contadini e nato sull’isola di Borgoya, che ritrarrà sfumata e affascinante in numerosi suoi quadri, trascorre la sua giovinezza tra la vita presso l’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf e l’amore per la bellissima Helen, figlia della sua affittacamere in quella città. Perdente però in entrambi gli ambiti, ritorna in patria dove indefessamente continua a dipingere la sua terra di fiordi, cascate, visioni nebbiose e marine notturne, scenari diurni tra alberi spettrali e squarci di luce. Perdendo via via però la ragione, fino al ricovero in ospedale psichiatrico, entra sempre più in una dimensione di isolamento e povertà estrema, non trovando riconoscimento per le sue meravigliose tele che solo dopo la morte verranno apprezzate fino a farne il maggior esponente della pittura romantica del suo paese. Nel libro di Fosse questa sua vicenda biografica viene incredibilmente raccontata anche attraverso l’incontro postumo con un giovane scrittore di fine ‘900 che ne vede i quadri, innamorandosene. I flussi di logorroici dialoghi interni diventano così spesso flash di visioni e di luce, quella luce che il più delle volte forma un impasto cromatico, che solo sembra dare sollievo ad una disperata solitudine di rimuginìo senza fine e pare di condurre alla follia. In tal modo la pittura di Lars Hettervirg ci appare sospesa nella minuziosa descrizione paesaggistica dell’incanto di paesaggi nordici estremi, dove il cupo e il brillante convivono insieme spesso stratificati e richiamano appunto quel sublime e quella nostalgia distruttrice dello Sehnsuch a cui prima si accennava. Il tutto ci conduce pertanto ad intendere come l’instabilità psichica divenga qui un’ossessione tra realismo e surrealismo, lasciandoci aperta una domanda: quella natura meravigliosa che Lars descrive l’ha vista davvero o l’ha sognata in una sua allucinazione? Rimangono in ogni caso i doni immensi della sua stupenda immaginazione pittorica che ricorda le parole di Leonard Cohen: “Se hai un dolore di cui non riesci a liberarti, fanne un’offerta creativa.”