Medea donna: Il femminile tra privato e pubblico
Il romanzo di Christa Wolf è in realtà più che un “romanzo” secondo la comune accezione. E’ anche in parte una ricostruzione storica del passaggio dalla società matriarcale a quella patriarcale. Che ci sia stato un matriarcato in tutte le culture del mondo, si potrebbe dire, è documentato; quali siano stati i poteri effettivi dello donne è difficile rintracciare; che esse avessero una posizione importante è testimoniato dal culto della Dea madre, presente ovunque (10) – recentemente ho potuto costatare la presenza di una Dea della fertilità arcaica perfino nel museo di Islamabad in Pakistan – e poiché la dimensione sacrale era in quelle culture pervasiva e penetrante in ogni aspetto della vita umana è possibile che il femminile avesse un posto di rilievo. Basti ricordare l’inizio del bellissimo Inno omerico a Gea: “Gea canterò, la madre universale, dalle salde fondamenta,/ antichissima, che nutre tutti gli esseri, quanti vivono sulla terra; / quanti si muovono nella terra divina o nel mare / e quanti volano, tutti si nutrono dell’abbondanza che tu concedi./”.
Che ci sia stato un momento di passaggio, forse legato alle invasioni degli Indoeuropei che recavano con loro una società guerriera, patriarcale, dominata da divinità maschili, è anche possibile per quanto riguarda, appunto, l’Europa e l’Asia. Delfi può essere la testimonianza di un luogo dove è avvenuto il “passaggio”: il culto femminile presente dal tempio circolare detto tholos che si trova ai piedi del colle, ora dedicato ad Athena, è stato scalzato da Apollo – forse un eroe venuto dal mare con i suoi guerrieri – che ha stabilito il culto ad una divinità maschile, collocato più in alto, utilizzando in ogni caso le capacità mantiche di una donna, la Pitia? Non a caso nell’Inno omerico ad Apollo è detto: “Allora balzò fuori dalla nave Apollo, il dio arciere, / simile a un astro che appare il pieno giorno: da lui / scaturivano faville innumerevoli, e il fulgore giungeva fino al cielo”. Egli appare ad alcuni marinai che diventeranno suoi sacerdoti a Delfi.
Se tutto ciò è plausibile è avvento un passaggio, il maschile ha preso il sopravvento. E’ chiaro, allora, che il movimento di rivendicazione del ruolo del femminile doveva essere interessato alla figura di Medea. Ma proprio alla Wolf era sorto un sospetto: come poteva una delle ultime esponenti del matriarcato arcaico, Medea, appunto, aver ucciso i figli secondo l’interpretazione data da Euripide? Se si legge il commento di Christa Wolf intitolato L’altra Medea – Premesse a un romanzo si coglie bene il suo itinerario interiore; ella scrive l’undici novembre del millenovecentonovantuno: “ Un trionfo – nel campo dove per me i trionfi significano ancora qualcosa: a Wolfsberg il direttore di un museo mi ha messo in contatto con una specialista di Medea che vive a Basilea – grazie a lei ho avuto conferma delle mie supposizioni: nelle fonti più antiche Medea non uccide i suoi figli, il primo ad attribuirle l’infanticidio fu Euripide; lei porta i figli al tempio di Era, là poi saranno i corinzi a ucciderli”(11) .
A mettere la Wolf sulla buona strada è proprio Margot Schmidt, che ammette di essere “perseguitata” da Medea “non solo perché è una figura che amo, ma anche perché nel corso degli anni mi si è fatta incontro sotto forma di immagini sempre nuove, nelle quali rivela nuovi lati inattesi” (12). La Schmidt è autrice della voce Medea del Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae in cui scrive: “Con tutta probabilità il motivi dell’infanticidio nella forma presente in Euripide fu associato a Medea in chiave di rea vendicatrice solo nella tragedia rappresentata nel 431” (13). Ci sono altre fonti in particolare lo scolio a Euripide, Medea 264 in cui si sostiene che ella avrebbe lasciato i figli nel Santuario di Era a Corinto dove li credeva al sicuro, ma i Corinzi li avrebbero uccisi. Pertanto ella non sarebbe stata l’autrice dell’infanticidio. In ogni caso il racconto che riguarda Medea rivela successive stratificazioni, confluenze di miti, come si evince dal carteggio fra la Wolf e la Schmidt, dal quale emerge che gli uomini regnavano solo perché le donne permettevano loro di farlo. Questo riguarda il padre e la madre di Medea ed anche il rapporto fra Medea e Giasone, tanto più che ella è una figura femminile umana e sovrumana insieme, perché i diversi miti e le raffigurazioni rivelano anche quell’aspetto del sacro pervasivo che fa della stessa Medea una dea, dea ctonia che può dare e togliere la vita.
Tutto ciò premesso, sembra molto opportuna la domanda che Petra Kamman rivolge alla Wolf in una intervista pubblicata sul “Buchjournal” nel 1966: “Secondo Lei avrebbe senso un ritorno al matriarcato? “La risposta dell’autrice è perentoria “Per l’amor di Dio, no!” (14) E’ necessario un progresso e non un regresso. E, allora, in che cosa si può cogliere il “progresso”? Un punto importante per la Wolf è quello di ridare un’immagine umana a Medea, come si è già indicato sopra, sottraendola alla dimensione del divino. Ma c’è una seconda considerazione che può essere più interessante e quella che riguarda il rapporto fra maschile e femminile descritto nel romanzo.
Ci sono uomini infidi, prevaricatori e assetati di potere, il prototipo è Giasone, ma questa tipologia comprende Eete, il padre di Medea, Creonte, il re di Corinto, Acamante, l’astronomo del re Creonte. E’ presente, tuttavia, un’altra schiera di personaggi maschili, frutto di fantasia o forse si potrebbe dire di desiderio – nel senso che si desidererebbe che esistessero veramente – come Oistros, lo scultore con il quale Medea stabilisce un rapporto amoroso ed anche Leuco, secondo astronomo del re Creonte. Due personalità affini ed anche diverse. Entrambi, schivi e non attirati dal potere, fanno due mestieri che li isolano dalla città, Leuco che vive quasi sempre sulla sua torre e Oistros che si chiude nella sua creazione artistica. Leuco appare nel romanzo come una “voce” autonoma che parla anche dell’altro uomo descrivendone il carattere. Essi rappresentano rispettivamente l’amicizia, Leuco, e l’amore, Oistros, che si possono istaurare con una donna, Medea, appunto. Il primo è preoccupato per la sorte della sua amica che sente minacciata dai Corinzi, l’altro sembra non vedere; forse, fatalisticamente, accetta. Leuco sostiene che ha un carattere “noncurante”, nel senso che non ha cupidigia di denaro, non prova invidia, sa creare intorno a sé un clima di serenità e valuta tutti gli esseri umani allo stesso modo: “sono certo che non si sarebbe dato arie nemmeno se il re Creonte avesse smarrito la strada finendo a casa sua” (15).
Il rapporto fra Medea e Oistros è raccontato da Leuco, uomo mite ma debole, che non sa prendere una posizione precisa, con il quale si può essere amici perché si possono discutere anche i propri sentimenti, ma che non si può amare. Si può amare chi è affidabile, colui che la ha salvata quando inseguita dalla folla la fa rifugiare nella sua casa lontano dal centro della città e quindi dal potere.
Mi sembra che l’ideale per la Wolf nel rapporto uomo donna sia quello di stabilire una relazione sull’affidabilità reciproca, sulla parità nella differenza. A differenza di quelle femministe che rifiutano ogni rapporto con il maschile la Wolf sembra volerlo e per questo “idealizza” una figura di uomo i cui valori sono quelli più profondi che ne fanno un punto di riferimento non eclatante, ma sicuro e non solo per se stessa, ma anche per gli altri.
Mi sembra che ella alluda ad una sorta di reciprocità fra maschile e femminile che si può coniugare con quella che chiamo “antropologia duale” (16). La diversa configurazione del femminile del maschile che riguarda tutte le dimensioni dell’essere umano, quella corporea, quella psichica e quella spirituale può essere fonte di conflitto oppure di accordo. Ciò è sottolineato anche da Euripide, che nel prologo alla tragedia afferma: “Se non sorgono screzi tra uno sposo/ e una sposa, piacevole è la vita, / e la fortuna è immensa!” (17). Egli auspica un accordo fra i due sessi, ma difficoltà riaffiorano nel corso della tragedia sia da parte del femminile che denuncia la sua fragilità e anche la sua sottomissione naturale e culturale, sia da parte del maschile che maledice la necessità dell’unione fra uomo e donna per mezzo delle parole di Giasone: “…Oh, se fosse / possibile ai mortali avere figliuoli / in qualche altra maniera, e se la donna / non esistesse! I mali che ci affliggono, / credi, scomparirebbero d’incanto! “(18).
Esaminiamo il primo punto in Euripide. Medea, pur essendo nipote del Sole, è pur sempre una donna, la mescolanza fra divino e umano non la esime dall’avere una natura di donna: “… Tu possiedi conoscenze / ignote agli altri, senza dire che / noi donne, se siam fatte da natura incapaci di compiere del bene, / nel male non v’è alcuno che ci superi” (19). Quindi le donne per natura non sono capaci di fare il bene; il giudizio di inferiorità morale è molto chiaro. Questo giudizio sembra attenuato nelle parole del coro, perché anche gli uomini sono perfidi, ma mentre si tende ad equilibrare i due generi, si procede ad una ulteriore evidenziazione della debolezza naturale della donna, incapace di “poetare” e questo è detto da un poeta, Euripide, appunto:” Giunta è l’ora che smettano le Muse / degli antichi poeti di cantare / le viltà femminili. Se anche a noi / Febo, signore degli inni, avesse dato / il dono della poesia, qualcuna di noi eternerebbe le perfidie degli uomini. Ma il tempo / ha raccolto una messe molto ricca / di eventi sulla vita / dolorosa dell’uomo e della donna” (20). La compassione per la condizione umana presa nella sua interezza non esime dal riconoscere un ulteriore motivo di inferiorità della donna. Ci si può chiedere se sia proprio questa debolezza naturale che determina anche la subordinazione sociale nella prospettiva qui espressa da Euripide. Probabilmente è così. Allora egli, pur mettendosi in qualche momento “dalla parte delle donne”, non ne può sostenere fino in fondo la causa perché questa presupporrebbe una pari dignità.
E’ a questo proposito che culturalmente il cristianesimo – non i cristiani – ha dato un impulso a rivedere proprio la questione della natura della donna. Ciò è avvenuto lentamente e con molta difficoltà, ma erano ormai state poste le basi teoretiche per stabilire, secondo il testo già presente in Genesi (1, 26-28) relativo all’essere immagine di Dio sia la donna che l’uomo, la fondamentale parità nella dignità. E questo che consente a Christa Wolf e a tutto il movimento femminista di rivendicare la propria autonomia e a richiedere la visibilità pubblica della donna.
Ho avuto occasione di ripercorrere la storia del femminismo occidentale e ho notato che le sue origini negli Stati Uniti d’America sono cristiane (21); il movimento ha poi subito un processo di laicizzazione, quello stesso che ha investito gran parte della cultura occidentale per cui ora si è perso il ricordo delle radici religiose del movimento. E questo è chiaro nel libro della Wolf; si è notato, infatti, che il processo di liberazione della donna per lei passa attraverso l’eliminazione del momento religioso, presupposto per la rivendicazione del ruolo sociale e politico della donna. Ci si può chiedere se questi due aspetti debbono essere necessariamente connessi, oppure se proprio una revisione dell’antropologia su basi cristiane possa comportare un ripensamento del rapporto natura-cultura per quanto riguarda sia il maschile che il femminile in una prospettiva di antropologia duale.
Christa Wolf , nella sua posizione laicizzata che mantiene, però, alla lontana i fondamenti teorici della tradizione ebraico-cristiana, ci dà con la sua interpretazione del ruolo del femminile certamente un progresso rispetto alla posizione che emerge nel teso euripideo attraversato da una “tensione” di avvicinamento simpatetico verso il femminile, ma anche da un distacco che in qualche punto raggiunge venature scettiche a causa delle visione pessimistica della natura femminile che rimane nello sfondo del dibattito sull’argomento che sembra riproporre sulla scena.
Il confronto fra i due autori in ogni caso è stimolante perché ci costringe a ripensare i due nuclei problematici su i quali mi sono soffermata relativi all’incontro-scontro fra culture e al rapporto maschile-femminile facendo riferimento a due momenti fondamentali per la civiltà occidentale, quello derivante dalle basi teoriche fornite dalla filosofia greca e quello legato alla tradizione religiosa ebraico-cristiana. Si intravede sullo sfondo un terzo tema, quello relativo al rapporto bene – male e al loro conflitto nella realtà storica: al pessimismo di Euripide fa da contraltare l’utopia della Wolf. Ciò non significa che non si possa lottare per la realizzazione del bene e che non si possa sperare nella sua vittoria.
Si può notare che lo scavo all’interno di testi pur così lontani, come quelli di Euripide e di Seneca, ci conteste di avvicinarli sia rispetto ai problemi umani sempre presenti nella loro fondamentale somiglianza sia rispetto all’analisi della nostra cultura che vive, qualche volta drammaticamente, l’incontro fra le diverse prospettive qui messe in evidenza. Anche l’approfondimento di due testi letterari, uno del passato e uno del presente, ci riconduce, come si è cercato di mostrare, a questioni filosofiche di fondo attraverso le quali essi possono essere ulteriormente illuminati.