Quando, da bambina, guardavo i cartoni animati della Walt Disney, mi ponevo una domanda: perché le principesse sono sempre vestite uguali?
Non me ne davo pace. E mi sentivo pure in colpa! Al senso di colpa si comincia ad allenarsi sin da piccole. Io avevo vestiti per la scuola, per andare in gita, per lo sport, per le feste delle mie amichette, avevo pigiami, costumi da bagno, stivali da pioggia … loro no! Loro erano felici e contente PER SEMPRE, ma non si cambiavano MAI!
E infatti – l’ho capito molto tempo dopo – anche la loro vita non cambiava mai.
Ma davvero un vestito può essere così importante?
Il famoso “non ho niente da mettermi”, proclamato con toni drammatici di fronte ad un armadio straripante di vestiti e accessori, ha a che fare solo con la nostra immagine o con qualcosa di più profondo?
Diceva qualcuno: «spesso, pur di non dover buttare via i vestiti che non vanno più bene per noi, fingiamo di andare bene noi per loro».
Vi ritrovate? Scommetto di sì; gli abiti in questione non sono necessariamente capi di abbigliamento. Tutti noi abbiamo una sorta di guardaroba esistenziale; abiti e abitudini, e quindi pensieri, parole, azioni, relazioni, atteggiamenti e ruoli che, per un po’, ci vanno bene ma, alla lunga, ci vanno stretti.
“Cosa aspetti a liberartene? – ci chiede la vita – ho in consegna per te una carico di meravigliose nuove opportunità ma, se tu non fai un po’ di spazio, io come faccio a mandarti il corriere?”.
E così, in un attimo, noi siamo lì, legati alla porta dell’armadio come Ulisse all’albero maestro, con la cera nelle orecchie per non ascoltare le voci di dentro (e di fuori) che ci chiedono di lasciar andare.
La parte più difficile è sempre questa: non tanto accettare il nuovo, quanto lasciare andare il vecchio.
Anche in questo caso Cenerentola docet.
Quando la fatina informa Cenerentola che, se non si cambia il vestito, al ballo non la fanno manco entrare, la brava Cinderella non oppone la minima resistenza e si tuffa felice e contenta nel suo nuovo abito scintillante con duecento sottogonne di tulle, taffetà, organza e chi più ne ha più ne metta, ma quando, a mezzanotte, scade il contratto di dress-sharing stipulato con la fatina, ci accorgiamo che Cenerentola, sotto l’abito meringa e le scarpine di cristallo, indossa ancora i suoi vecchi abiti da casa.
Appunto, come dicevamo, indossare abiti nuovi è facile, è togliersi quelli vecchi che è difficilissimo!
Forse perché non ce lo hanno insegnato? Forse perché c’è sempre stato, ad ogni angolo della vita, qualcuno pronto a rifilarci una bella maschera da indossare per ottenere questo o quell’altro risultato, per piacere al mondo, per essere ammessi al ballo, per fare bella figura, per essere amati … e ognuna di queste aspirazioni, necessarie e vitali, corrisponde a una maschera specifica, a una sorta di manuale con indicazioni preconfezionate di come, secondo gli altri, dovremmo essere.
E, così, le maschere si moltiplicano, fino a non riconoscere più il nostro vero volto.
Il problema, tuttavia, non è la maschera in sé, bensì credere che maschera e volto siano la stesa cosa.
Si parla tanto di empatia, di imparare a mettersi nei panni degli altri, ma perché nessuno ci invita mai a metterci nei NOSTRI panni? Quelli veri e autentici dei nostri desideri, delle nostre risorse mai indossate, delle esperienze che vorremmo fare, dei rischi che ci va di correre, dei tanti noi stessi a cui vorremmo dar voce e gesti, non bidimensionali come l’immagine allo specchio, ma a tutto tondo e con tutte le nostre sfumature, che però sono rimaste intrappolate in quelle duecento sottogonne di chi, naturalmente, sa ciò che è meglio per noi e, anche se non glielo abbiamo chiesto, ce lo ha detto comunque. Allo sfinimento.
Basta! Toglieteci tutto, ma non la nostra stoffa!
Perché è con quella che intesseremo i nostri nuovi abiti.
E il nostro star bene non nascerà solo dall’avere un abito nuovo in cui finalmente ci riconosciamo, ma da tutto il lavoro fatto che avremmo fatto per arrivare lì; l’opera lenta, paziente e difficilissima di lasciar andare quello che c’era prima, di svuotare il vecchio armadio, un pezzo alla volta, decidendo cosa tenere e cosa no.
Ma chi le vuole le sottogonne? E le scarpine di cristallo ne vogliamo parlare? Sai che male ai piedi! Meglio scalzi allora e nudi, per ripartire dall’essenza. Dalle cose più semplici.
Spalancare le finestre e lasciare entrare il vento che spazza via la polvere e porta dentro nuovi suggerimenti per l’armadio vuoto; l’impalpabilità di un fiocco di neve, le cuciture sottili di una foglia, la sfumatura di un tramonto, la linea morbida di una nuvola, lo schiudersi di sorriso sul volto di un passante.
In uno spazio vuoto, libero da tutto ciò che lo ingombrava solo per abitudine, si notano cose piccole, anche piccolissime, ma così preziose! Ogni indizio è buono per cominciare a progettare il nostro nuovo armadio di abiti e abitudini che, sommate insieme, diventano le infinite possibilità di vivere la nostra vita. Una vita unica, come unico è ciascuno di noi. Una vita su misura.
Francesca Isola
Autrice e attrice teatrale
diplomanda Master PNEI e Neuroscienze