L’11 Novembre, San Martino, è la Giornata Nazionale delle Cure Palliative, la cui etimologia rimanda al pallium, il mantello divenuto simbolo della spiritualità del prendersi cura cristiana, perchè metaforicamente vuole essere una cura che riscalda, abbraccia, avvolge, come un mantello. Per questo il giorno di San Martino, famoso per la storia del suo mantello tagliato e donato, è stato individuato come momento di riflessioni, condivisioni, conferenze e festeggiamenti all’interno degli hospices.
Le mie riflessioni oggi su San Martino valorizzano tre aspetti riguardanti simbolicamente le cure palliative: una rilettura del Suo nome, la vera storia del mantello, una scelta di vita monastica particolare: l’eremo cenobitico.
Il Santo nacque intorno al 317 a Sabaria, una fortezza, località di confine dell’Impero Romano, oggi denominata Szambatkely in Ungheria, ove il padre era militare con l’elevato grado di “Tribunus Militum”, onorificenza in genere riservata ai membri dell’aristocrazia senatoria. Egli, proprio in virtù di questa sua professione chiamò il figlio Martino, ovvero piccolo Marte, il dio della guerra, in quanto si prefigurava per lui una altrettanto brillante carriera militare.
La prima riflessione è inerente la mia rilettura di questo nome nell’ambito delle cure palliative in quanto mi rimanda al famoso libro di Susan Sontag “La malattia come metafora della guerra” e alla rappresentazione nell’etimologia del nome del divenire tutti guerrieri nell’affrontare la malattia, senza depressione rassegnata, ma in piena consapevolezza, integrità e pienezza di vita. Significativo, anche, in ambito sanitario, l’appellativo che è stato dato a San Martino di Taumaturgo, in quanto numerosi sono i miracoli da lui fatti di guarigione di malattie e di cura della sofferenza del corpo, e persino di interventi chirurgici. Famoso quello che fece sul cristallino all’amico Paolino per ridargli la vista, senza che questi provasse alcun dolore durante l’operazione.
La seconda riflessione riguarda l’episodio, divenuto leggendario, del mantello tagliato a metà per darlo al povero intirizzito dal freddo, e raffigurato dai pittori, di tutte le epoche, in modo errato. La vera storia, infatti, risale a quando Martino aveva 18 anni ed era un giovane ufficiale e indossava l’uniforme militare, che nel IV secolo, in epoca romana, era costituita da una clamide e sopra un ampio mantello bianco foderato di pelliccia. San Martino non poteva tagliare il mantello a metà, perché questa sarebbe stata una grave infrazione del regolamento militare, ma quello che fece fu un gesto ancora più generoso, tagliò la parte interna del mantello, donò dunque al povero la pelliccia, la parte più calda.
Come a dire, nelle cure palliative doniamo calore umano, accogliamo la parte intima dei pazienti, e riscaldiamo il loro cuore favorendo le riconnessioni affettive della loro vita. Anche in questa riflessione il rimando è ad un libro sulle cure palliative, quello scritto da Marie De Hennezel dal titolo “La morte intima”: noi psico-oncologi siamo dei privilegiati, per certi versi, nell’essere depositari dell’esperienza più intima affettiva di coronamento della vita dei nostri pazienti.
Infine, la terza riflessione riguarda la particolare scelta di vita di San Martino, da ufficiale a monaco, che nel 371 fu nominato vescovo e poi, per conciliare l’evangelizzazione pastorale vescovile con la vita monastica eremitica, fondò il Monachesimo Martiniano, una sorta di “eremo cenobitico”. Infatti essere Eremiti (da anacoresis = allontanamento) vuol dire vivere soli e lontano da tutti, e invece essere cenobiti (da koinohion = vita comune) individua le persone religiose che intendono costituire una comunità. Ebbene la Regola del Monachesimo Martiniano prevedeva che i monaci dovevano vivere soli, dedicarsi alle preghiere e alla ricopiatura dei testi sacri, ma in grotte e capanne vicine, e ritrovarsi insieme solo per la celebrazione delle S. Messe e per l’Ufficio. Anche in questa scelta di vita ritrovo delle caratteristiche proprie delle cure palliative che richiedono un ripiegamento su se stessi, sulla propria storia vissuta, sul bilancio del passato, nel presente, verso il futuro prossimo, che richiede un momento di solitudine interiore e un distacco dal mondo, ma anche dei momenti importanti di condivisione con i propri cari.
La medicina palliativa, ultima frontiera della cura dei malati inguaribili, ha dunque la funzione di migliorare la qualità della vita e di rispettare la dignità dell’essere umano fino alla fine, aprendo un orizzonte luminoso di spiritualità.
Paola Argentino
Direttrice Istituto di Neuroscienze e Gestalt Therapy “Nino Trapani”
e Condirettore Master e Docente Università Cattolica Sacro Cuore