Se guardiamo nuovamente uno dei quadri più famosi del nostro tempo, assunto quasi ad icona del dolore e della frammentazione interiore nell’epoca postmoderna, possiamo porci questa domanda: vi è raffigurato un volto o una maschera?
A me pare vi sia ritratta una “persona”, termine che, com’è noto, etimologicamente si richiama alle maschere teatrali attraverso cui risuonava (dal verbo latino personare) la voce dell’attore. In questo senso osserviamo, quindi, una “maschera” umana, che fa uscire dal profondo della propria interiorità straziata un grido, che sembra proprio diffondersi grazie all’eco incredibile della fama di quest’opera. Lo stesso Munch nei suoi diari sembra suggerirci, anche se in forma un po’ ambigua, proprio questo carattere di voce lancinante che emerge da dentro, descrivendo una sua passeggiata serale. Afferma infatti: “… in un periodo in cui la vita aveva ridotto a brandelli la mia anima…. ho avvertito un grande urlo, ho udito, realmente, un grande urlo – i colori della natura – mandavano in pezzi le sue linee – le linee e i colori risuonavano vibrando – queste oscillazioni della vita non solo costringevano i miei occhi a oscillare ma imprimevano altrettante oscillazioni alle orecchie – perché io realmente ho udito quell’urlo – e poi ho dipinto il quadro L’urlo.» Voce interiore o urlo esterno avvertito, è proprio da queste parole che emerge anche un suo volto, certo così astratto, ridotto a teschio con orbite e non occhi, ed una bocca simile ad una voragine. Lineamenti semplificati come tratti sfigurati, ma pur sempre riconoscibili in un sembiante umano, non il suo autoritratto riprodotto, ma un volto singolo e comune di ogni uomo sconvolto da un dolore cosmico, percepito da dentro o da fuori che sia. Questo viso si presta allora ad ogni sofferenza umana, ancora ai nostri giorni. A conferma un particolare piccolo, ma forse significativo: l’emoji che esprime la “faccina terrorizzata” è ispirato graficamente proprio a questa opera, dove un viso è sorretto da mani che cercano di contenerne la disperazione. Quell’eco di maschera risuonante, inconsapevolmente, si propaga ancora perfino sui social in migliaia di messaggi e chat, dove i visi compaiono solo in selfie o videochiamate e spesso ci si maschera dietro ad un virtuale che protegge, anche se espone. Dobbiamo molto, a mio avviso, all’Urlo di Munch, al suo coraggio di dar voce all’angoscia più o meno latente in ogni uomo, perché anche quella propagazione per onde nei tempi può permettere a noi di diventare volti di uomini e donne capaci di ascolto, accoglienza e cura di quel dolore, lì inconsolabile, ma almeno ancora esprimibile.
CHIARA GATTI
Counsellor professionista in formazione
Istituto di Neuroscienze e Gestalt Therapy
“Nino Trapani”