L’anno scorso, con le classi prime superiori, ho fatto molta fatica a imparare i nomi dei ragazzi e ragazze. Verso gennaio mi rendevo conto che ancora facevo fatica a identificarli e mi sono chiesto il perché. Forse anche la mia stanchezza o forse il numero degli studenti (insegnando religione avevo ben 5 classi prime nuove, perciò più di cento persone). Ma poi ho intuito che un’altra cosa era entrata potentemente a produrre questa mia difficoltà: la mascherina. Non li vedevo quasi mai a volto intero! La impossibilità di guardarli in faccia e imprimere nella mia memoria i loro tratti somatici, aveva giocato a sfavore.
Sappiamo tutti molto bene quanto sia importante, soprattutto per gli adolescenti (ma in realtà per tutte le persone), essere riconosciuti nella propria identità, e il modo sintetico di esprimere il riconoscimento è chiamare per nome la persona. Ma la scheggia di esperienza che ho raccontato, mostra bene come ciò sia legato strettamente alla possibilità di incontro “faccia a faccia”, perché è lì che quel nome prende “corpo”, nel senso pieno della parola, si riempie di tracce somatiche che restano nella nostra memoria e ci permettono di riconoscere e non confondere le persone.
Allora però, di fronte alla pervasione della comunicazione tecnologica, qualche domanda, che nasce più facilmente sul piano educativo, ma si allarga a tutta la realtà, non può essere elusa. Quanto è davvero possibile riconoscere e sentirsi riconosciuti in una relazione “senza volti”? Quanto permette e quanto limita, in termini di percezione della persona una chat di whastapp, una conferenza non in presenza, una lezione in pod cast? Possiamo davvero pensare di costruire relazioni umane senza presenza fisica all’altro?
Già ai primordi della civiltà, l’uomo ha sentito il bisogno di allargare le potenzialità comunicative oltre i limiti della presenza fisica, con segnali luminosi (il fumo in particolare), con tracce grafiche lasciate in luoghi naturali accessibili a tutti. Poi con l’invenzione della posta, questo bisogno ha preso struttura sociale organizzata. L’arrivo del telefono, e poi della televisione, ha permesso a questo bisogno di allargarsi molto. E oggi assistiamo a cose che, anche solo 30 anni fa, erano impensabili. Ma cose dove la pervasività sociale di una relazione non in presenza, tende a dilatare molto il tempo e lo spazio delle nostre comunicazioni “parziali”, rispetto a quelle in cui tutti i cinque sensi possono intercettare la presenza dell’altro.
Ma questo spostamento quantitativo sta producendo un effetto qualitativo che incide sulle relazioni umane. Se la maschera non è solo un semplice occultamento della propria identità, ma anche una rivelazione di lati di sé parziali, ma che ci appartengono, quando viviamo relazioni parziali, non stiamo forse indossando una “maschera”? E il fatto di farlo per così tanto tempo, durante la giornata, cambia qualcosa della nostra percezione della presenza degli altri nella nostra vita? Cosa avviene se, in modo ordinario e socialmente accettato e favorito, ci mostriamo solo parzialmente all’altro? Possiamo scambiare in queste forme un “riconoscimento” effettivo delle nostre identità?
Questa tecnologia permette certo di potenziare alcuni sensi: vista e udito. Ma lo fa a scapito degli altri sensi. L’essere in presenza reale di una persona permette, invece, l’attivazione simultanea (almeno potenziale) di tutti i sensi. E le neuroscienze oggi ci mostrano chiaramente come l’intreccio dei dati sensoriali provenienti dai tutti sensi produca molta più conoscenza della realtà di quanto ne avremmo se quei sensi fossero attivati singolarmente davanti alla medesima realtà. La presenza reale all’altro consente di cogliere di lui, in modo riflesso ma autentico, elementi che addirittura ci permettono di intuire se lui sta usando molta mascheratura o no, nella relazione con noi. Cosa molto più difficile se la relazione non fosse in presenza fisica.
Credo che sia allora necessario riflettere insieme su queste domande, perché abbiamo a cuore il bene delle persone, il bene intero di persone intere. E cercare, magari, di trovare forme di utilizzo delle comunicazioni “parziali” che siano utili allo sviluppo del bene intero delle persone.
Giliberto Borghi
Didatta della Scuola di Formazione in Counselling Socio-Educativo
Istituto di Neuroscienze e Gestalt “Nino Trapani”