È la “speranza” una creatura alata
È la “speranza” una creatura alata
che si annida nell’anima –
e canta melodie senza parole –
senza smettere mai –
E la senti dolcissima nel vento –
e ben aspra dev’esser la tempesta
che valga a spaventare il tenue uccello
che tanti riscaldò –
Nella landa più gelida l’ho udita –
sui più remoti mari –
ma nemmeno all’estremo del bisogno
ha voluto una briciola – da me.
Nella volontà sempre presente di approfondire il tema della spiritual care, quest’anno le quattro giornate della Summer School dell’Istituto Nino Trapani ci hanno fatto davvero “cantare un inno” al prendersi cura della vita (per citare la protagonista S. Ildegarda Von Bingen), trovandone il senso proprio nella visione olistica della bellezza dell’essere umano, e del suo essere inserito in un più ampio respiro cosmico e spirituale. Personalmente,riascoltando dopo un po’ di tempo quali risonanze mi ritrovo dentro, lascio emergere, tra i tanti fil rouge presenti, almeno due grandi nuclei profondi e nutrienti, citando a braccio suggestioni qua e là e rileggendo i tanti appunti presi. Mischierò dunque le parole sapienti dei relatori alle mie.
Il primo: la Speranza! Analizzata sapientemente dal prof. Borgna nella prima giornata, mi colpisce molto come questo valore, che vive certamente nel futuro, abbia bisogno di nutrirsi di ricordi personali che non coincidono con la “memoria dei numeri”, ma con quella emotiva ed emozionale; e questo in un respiro ampio che fa sì che la speranza vada ben oltre la morsa dell’attesa, per il fatto stesso che, in senso pratico, viene riempita proprio dalla disperazione (termine che le è affine anche etimologicamente).
Infatti “l’angoscia”, ci ricorda Borgna, citando Santa Teresa d’Avila, “è il premio che Dio dà alle persone che soffrono”, e che da lì potranno conoscere la speranza vera che si pone come ponte nella relazione tra me e l’altro.
E se a seguire il prof. Benedetti poteva parlarci delle parole di bene come veri veicoli di una speranza che si fa farmaco, fino a dimostrare quali miglioramenti oggettivi si verifichino nei sintomi di alcuni pazienti solo al sentire parole incoraggianti, pur in assenza di reale somministrazione di sostanza chimica farmacologica, la professoressa Rosa Grazia Romano, a fine giornata, ci ricordava che la speranza non è dei forti, ma dei fragili, in quanto questa virtù, pur essendo un dono come virtù teologale, non è tanto un accadimento, quanto una direzione da seguire; così ci spinge a credere nel già e non ancora, e ci pone in quella postura esperienziale che fa di ogni uomo che la sceglie un homo spe erectus. Ancora ci veniva ricordato come Ildegarda amasse definirsi “la piuma di Dio”, lasciandosi condurre dallo Spirito vivificante, per lasciarsi andare a quello che la vita ci offre, prendendoci cura di chi ci viene affidato. E da qui il richiamo alla splendida poesia di Emily Dickinson sulla speranza, proposta dalla stessa professoressa Argentino.
Personalmente fatico un po’ a pensare alla “bianca” Emily come a una donna di Speranza, sapendola rinchiusa per lunghi anni nel mondo filtrato della propria stanza, senza particolari contatti umani, per come le biografie ce la descrivono, prigioniera delle misteriose patologie neurologiche che le vengono attribuite: di quale speranza si sarà nutrita? Non lo sappiano, se non attraverso la dolcissima metafora di questo uccello solo immaginato… Eppure lei lo vede, lo sente, lo coglie nei suoi spostamenti tra tempeste e gelide lande, sopra mari lontani e in paesaggi inospitali. Perché alla speranza, come a quell’uccello abituato ad affrontare la durezza delle intemperie, sono rimaste melodie senza parole ma incessanti, e nella metafora il suo volo costante.
Eppure la speranza ha un nido, ed è l’anima, quella stessa anima che la prof. Erica Poli ci dirà, nel suo intervento, come abbia la stessa etimologia greca di “vento” (ànemos), e così quando l’anima entra in relazione si forma la coscienza, l’io-sono. Forse anche la vergine Emily, mi viene da pensare, guardando all’uccello-speranza, per un attimo si sarà sentita integralmente se stessa, in quell’ impeto di riconoscenza che le fa dire come mai la speranza abbia voluto in cambio qualcosa.
La speranza dunque, come valore gratuito, che nasce e gode della relazione, spinta dal desiderio, moto dell’anima meravigliosamente descritta dal prof. Bonaccorso col luminoso esempio dell’anfora, usata dagli uomini per il bisogno di attingere acqua fino al giorno in cui qualcuno penserà a dipingerla per abbellirla: è nato il desiderio.
E su questo desiderio si aggancia l’altro tema che io ho trovato estremamente presente: quello della Bellezza, presentata sempre dallo stesso Bonaccorso sotto il richiamo dell’amore come agàpe, che non esiste senza eros e filìa, perché il corpo si apre alla dimensione del prendersi cura come luogo principale di spiritualità. Spiritualità, dunque, come comportamento più alto dell’essere umano, che permette di “stare dentro” all’altro, prendendosene cura. Questo è agàpe, e non si può amare se non si vive di questa bellezza amorosa e gratuita.
Fra Gaetano La Speme, nell’ultima giornata, ci ricorda infatti che la bellezza è il modo preferenziale per lodare Dio e che nella Genesi Dio stesso vede con bellezza, con occhi belli. Poco prima il Prof. Salonia ci aveva ricordato che il vangelo del corpo è una declinazione del Vangelo della creazione, perché quando Dio crea l’uomo ha davanti il suo Figlio, il più bello tra i figli dell’uomo, che è venuto nel mondo a portare la pienezza, e ogni uomo è perennemente alla ricerca di quella pienezza, di quella felicità che non può prescindere dalla relazione con l’altro.
Facendo eco il prof. Sichera sottolinea la dimensione dell’esperienza di contatto con l’altro come primo luogo della cura e della stessa teologia, perché l’esperienza di contatto avviene tra i corpi, e non si dà salvezza senza alterità, smontando quell’dea pericolosa per cui dobbiamo formare persone “sicure di sé” fino alla rigidità: il richiamo forte è invece alla dimensione del rimanere pronti… e quanta bellezza e libertà ci sono, mi verrebbe da dire, in un’educazione che deve solo aiutare ad essere pronti all’altro, sapendosi anche ritirare, a volte, per far crescere l’altro.
Tanto ancora si potrebbe aggiungere, data la ricchezza di ogni intervento, ma riguardando proprio ad Emily: Speranza e Bellezza saranno riuscite ad entrare in quella sua stanza chiusa? Ci piacerebbe che a rispondere fosse proprio Ildegarda la quale, in un oltrepassare i secoli, le possa sussurrare una frase del suo “Inno alla vita”, per stemperare tanta solitudine: «E sono anche la razionalità, col vento della parola che risuona, da cui ogni creatura è stata fatta, ed in tutte ho immesso il mio soffio, affinché nessuna nel proprio genere sia mortale, perché io sono la vita».
Forse a questa “razionalità”, che è vento di parola che risuona e che dà vita, ora Emily potrebbe credere! La Speranza non è più “melodie senza parole”.
Chiara Gatti