Carla Joinson per prima, nel 1992, coniò la definizione di Compassion Fatigue per indicare l’impatto emotivo negativo per gli operatori sottoposti quotidianamente alle emergenze sanitarie. Nell’ambito della psicotraumatologia gli studiosi hanno evidenziato questo impatto emotivo come “costo negativo della cura” per le persone che affrontano il dolore altrui, ridefinendolo come “Secondariy Traumatic Stress Disorder” o “Vicarious trauma”.
Alcuni autori ancora hanno considerato la Compassion Fatigue come una forma particolare di burn-out, mantenendo comunque una connotazione di vissuto negativa. Il burn-out in realtà concettualmente si differenzia nettamente dalla Compassion Fatigue, riguardando lo stress e l’esaurimento mentale legato a problematiche lavorative, a continue richieste ambientali senza riconoscimento meritocratico, a conflittualità di rapporto tra colleghi, oltre che alle mansioni di cura dei pazienti.
Gli approfondimenti del nostro Istituto nell’ambito delle Neuroscienze e della Gestalt Therapy fanno emergere dalla Compassion Fatigue, una risorsa terapeutica positiva non solo per gli utenti, ma anche per gli operatori sanitari.
La recente letteratura accademica, supportata dalle ricerche delle neuroscienze, ribadisce che l’utilizzo del termine “compassione” è alquanto improprio, e la perifrasi “fatica da compassione” è eufemistica e non scientifica, e dovrebbe essere sostituito da “fatica dell’empatia”.
La neurofisiologia dell’empatia dimostra infatti che gli effetti dell’empatia riguardano il sentire ciò che l’altro sente, e nel tempo possono diventare negativi perché cumulativi di ripetute esperienze emotive dolorose, se non condivise. Infatti trova una possibile risoluzione nelle supervisioni di équipe come condivisione verbale al dolore vissuto.
La compassione, invece, riguarda un sentimento di cura, amore altruistico e desiderio umanitario di aiutare gli altri che appartiene al soggetto a prescindere dalle emozioni percepite empaticamente dall’altro. Ha connotazioni sociologiche e personali di scelta di vita che si collocano in un’area cerebrale diversa dalle zone di attivazione empatica, precedentemente identificate attraverso il neuroimaging come correlate al dolore.
La compassione è costitutiva dell’essere umano, è esistenziale, e ne connota l’identità prosociale. L’azione compassionevole, seppur prolungata nel tempo, nutre sempre più la nostra esistenza e può persino illuminare lati oscuri della mente, come afferma il prof. Erminio Gius nel suo ultimo splendido libro, frutto di anni di esperienza clinica e sociale, dal titolo, appunto, ‘compassione’(EDB, 2019). L’insigne professore, che ha saputo coniugare rigore scientifico e saggezza accademica con la profonda umanità e spiritualità della vocazione religiosa francescana, individua nella compassione la possibilità di una carta etica ideale mondiale che regoli i rapporti interpersonali e teorizza “la compassione come terapia” di cui argomenta nel dettaglio psicoanalitico e sociologico nella videopresentazione del nostro Master sul Pastoral Counselling, che potete rivedere qui.
Infine un pensiero speciale ai miei colleghi medici e a tutti gli operatori sanitari che lavorano in questo momento in prima linea nella lotta contro l’attuale pandemia da coronavirus COVID19: Vi auguro di mantenere salda e alta la compassione sempre, per i pazienti, i loro familiari, ma anche per voi, per ridurre gli effetti negativi di quella che adesso è stata definita la “Pandemic Fatigue”.
Paola Argentino