Qualsiasi gesto l’essere umano fa, ha lo scopo di farlo stare meglio di come sta. Pensiamo di fare qualcosa di semplice o banale, ma abbiamo pur sempre, anche nel quotidiano, la certezza che ciò che otterremo ci servirà. E se le situazioni sono ingarbugliate e dolorose, cerchiamo soluzioni, vie d’uscita o espedienti che ci facciano comunque risollevare da quella sofferenza. Non vederne neanche una possibile è il dramma più cupo. Lo spiega con chiarezza Medea: “Porto non è dove io rifugio trovi dalla sventura”. Parole, appunto, di disperazione (di assenza di speranza). La sensazione atroce di trovarsi in un vicolo cieco acceca: “Non ci sono alternative”, “Non c’è scampo”, “Non importa nient’altro” sono pensieri che diventano ossessioni e sgomentano il cuore fino a farlo svenire. Sì, il cuore cessa di esprimersi, non è più in sintonia col corpo che ne è la fonte e così la mente, senza corpo e senza cuore, impazzisce. Il focus sulla ferita è fisso, si perde la visione di insieme e si sfoca anche il “chi sono io” che in Gestalt viene definito “Funzione-Personalità” e che è quel senso di identità corporea e storica che permette alle mie scelte di essere coerenti con ciò che negli anni ho costruito e ho cercato di essere. “Unde malum?” si chiese per anni il grande Agostino e la sua risposta fu proprio questa: il male viene da una visione parziale delle situazioni. Ci si arena in una lettura incompleta e quindi falsata delle cose, e così si perde il senso sia della situazione che di se stessi. Accade allora che un uomo saggio e di fede proverbiali come Salomone si lasci irretire da una concubina fino all’idolatria o che una madre tolga la vita a quei figli cui l’aveva data.
Sia stato o no Euripide pagato per attribuire le colpe ad una straniera non toglie nulla a questa scultura umana che ci viene presentata in Medea: la sofferenza fa perdere se stessi.
Viene individuata una soluzione e solo quella sembra possibile. Solo quella risolutiva. Manca la visione dell’alternativa. Manca il confronto e la valutazione di altro. Con questo stesso processo vengono intraprese le guerre, vengono stretti patti scellerati, compiuti gesti estremi. La storia umana è un susseguirsi di fallimenti dovuti al non aver considerato altro che pure poteva essere ben visto e che avrebbe dissuaso dalla scelta. Restò una sorpresa per Ciro il valore degli spartani, per i Galli la creatività strategica di Cesare, per Napoleone la tecnica di retrocessione dei russi. Quante guerre forse si sarebbero evitate e si potrebbero oggi fermare se solo si guardassero le cose da un altro punto di vista! Quante scelte potrebbero darci una porzione di vera pace se solo valutassimo come veritiere anche le opinioni altrui! Una lettura spiritualista riscontrerebbe in ciò tutti i segni della perversione causata dal male morale e potremmo parlarne, una visione moralistica direbbe che si tratta di arroganza e mancanza di umiltà, una visione razionalistica che è frutto delle passioni (è la lettura che ne dà il coro, nella tragedia). Una visione relazionale e gestaltica – che vede l’uomo tradito solo dal suo soffrire – definisce tutto ciò il risultato di una mancanza (o di una perdita) di competenza al contatto. Ogni gesto, anche il più incomprensibile o illogico è l’esito del ritrovarsi senza appoggio relazionale. Uno sfilacciarsi progressivo della fiducia nell’altro che non me lo fa più vedere, un groviglio di concause che mi portano a fare le scelte più azzardate travolti da un succedersi di eventi cui sembra di non poter più dire di no.
Si raggiungono le derive più nefaste: “La vita a lor che giova?” esclama Medea quando ha già deciso di uccidere i figli, quei figli a cui lei – proprio lei – aveva dato la vita nel proprio corpo. La mano trema, e allora incoraggia se stessa dando voce ai suoi pensieri scissi: “Questo sol giorno i figli tuoi dimentica – dice a se stessa – e poscia piangi”. E ancora, in questo straziante soliloquio: “Non esser codarda, né dei figli pensar che d’ogni cosa ti son più cari, e che li desti a luce”. È la rinnegazione totale di sé. È squarciata nel suo stesso essere.
Non credo ci siano ricette per scongiurare esiti così dolorosi che ogni momento di vita può riservarci, sconvolgimenti che ci dilaniano e ci fanno sragionare. Non possiamo impedire alla vita di farci male! Ma sapendo quanto sia ingannevole il corso degli eventi, sempre e da sempre, possiamo sicuramente coltivare ogni giorno dentro di noi tutti quei mezzi che ci serviranno a non soccombere: un lavoro accompagnato su se stessi, ascolto del proprio corpo, amicizie fidate, abitudine alla riflessione e al confronto, attività progettuali volte a beneficio di terzi (che aiutano sicuramente a decentrarsi da se stessi), sane letture, partecipazione a convegni e a percorsi formativi che ci stimolano verso il ben-essere. Un impegno da perseguire con continuità incessante, senza ritrosia a chiedere aiuto alle prime avvisaglie di disagio. Un impegno nei confronti di noi stessi e degli altri, perché sono tante le persone che stanno male e che ci stanno accanto e a volte non ce ne accorgiamo nemmeno o verso cui non ci sentiamo di fare un passo avanti. Con l’augurio che ci consentano di aiutarli.
Agata Pisana
Didatta della Scuola di Formazione
in Counselling Socio-Educativo
Istituto di Neuroscienze e Gestalt “Nino Trapani”